Ieri l’altro ho scritto di getto un ricordo di Hassan Nasrallah il cui messaggio di fondo sostanzialmente era che chiunque avesse tentato di analizzare l’uccisione del grande condottiero libanese in maniera razionale e lucida, invece di battersi il petto e flagellarsi come un vero sciita durante l’ashura, avrebbe dovuto essere considerato al pari dei perfidi Iudaei.
Diciamo che ho un po’ esagerato (per correttezza riporto lo sclero in una nota alla fine di questo pezzo[1]), dunque per rimediare cercherò di esprimere lo stesso concetto diluito in una ventina di pagine ma mettendo un meme come immagine di copertina, così tutti penseranno che io abbia emendato la mia opinione tramite il trolling senza cedere a stupidi sentimentalismi politici. (Battute a parte, in questo modo voglio rispondere alle critiche ricevute, che ovviamente non ho censurato, anche se preferirei restare in tema e non mettermi a discutere di quanto io sia –o non sia– sfigato/incel e dei motivi per cui piagnucolando su Nasrallah ho dimostrato di aver avuto un padre smidollato e in ultima analisi di essere un ghei represso – posto che il personaggio mi stava davvero simpatico soprattutto perché mi ricordava Mario Brega).
Partiamo da un dato di fatto: la fine di Nasrallah è avvolta nelle nebbie del levantinismo, come qualsiasi episodio si verifichi in quell’area da millenni a questa parte, che d’altro canto è letteralmente il Levante (anche se loro si definiscono Ash-Sham, “Nord” in arabo…). L’uomo era troppo prudente, sospettoso e guardingo fino ai limiti della paranoia (altra caratteristica che la forma mentis “settentrionale” include nell’essenza levantina) per poter farsi cogliere di sorpresa in tal modo dai suoi nemici peggiori. Se non fosse stato così, non sarebbe potuto rimanere per oltre trent’anni alla guida di Hezbollah, e questo è un altro dato di fatto.
Quindi è successo qualcosa che lo ha fatto sentire talmente sicuro da “scoprire il fianco” forse per la prima volta in vita sua. Gli israeliani se la raccontano come al solito col tono da spacconi (ancora levantinismo, ché vale pure per loro anche se si sentono gli “svizzeri del Medio Oriente”): il tipico piano del Mossad frutto di coordinazione perfetta, intelligenza superiore e vari poteri magici derivati dal loro nume veterotestamentario.
Nel vantarsi di ciò tuttavia finiscono sempre per passare per quello che sono, cioè degli infidi: la “narrazione” pseudo-ufficiale è infatti quella di un Netanyahu che avrebbe finto di volere la pace recandosi all’Onu col ramoscello di ulivo, mentre aveva già preparato un discorso al vetriolo dando al contempo l’ordine di decapitare l’intera Hezbollah.
Inoltre, anche la faccenda degli “infiltrati” esprime una chutzpah fuori luogo, poiché implica la necessità di non fidarsi di alcun ebreo indipendentemente dalla sua nazionalità, visto che qui si chiama in causa in maniera diretta i cosiddetti sayan (no, non stiamo parlando di Dragon Ball), cioè quegli ebrei della Diaspora che al momento opportuno si mettono al servizio del Mossad anche a costo di tradire la comunità o la nazione in cui vivono.
Nel caso di Hezbollah, esso era un partito con una marcata matrice confessionale, ma non etnocentrica: dunque è possibile che nelle sue fila ci fosse qualche ebreo convertito allo sciismo magari secoli fa (tante famiglie degli ex territori dell’Impero Ottomano hanno accettato un destino da dönme, espressione da intendersi in senso lato come semplice traduzione di converso), che senza alcun patema d’animo abbia fatto prevalere un’identità (quella giudaica) sull’altra (quella di miliziano sciita o anche, mutatis mutandis, di agente segreto iraniano, se vogliamo estendere il discorso alle infiltrazioni del Mossad tramite sayanim nei servizi di Teheran).
Lasciamo però perdere l’antisemitismo, nonostante chiunque abbia un minimo di onestà intellettuale in tali frangenti dovrebbe concedere che certi preconcetti non nascono esclusivamente dalle turbe psichiche dell’odiatore di turno. A mio parere, Nasrallah pur essendo, al di là della veste da chierico, un politico piuttosto pragmatico, di certo non si sarebbe mai fidato di una garanzia proveniente solo da parte israeliana. È dunque molto probabile che la rassicurazione di cui non avrebbe mai potuto dubitare gli sia venuta da Teheran.
Anche qui, però, si rischia di fare il gioco dell’Hasbarà che vuole Israele come un’oasi di pace e razionalità in un contesto fatto di terrorismo, satrapie e congiure di palazzo. Eppure gli elementi per ipotizzare che Nasrallah sia stato “sacrificato” dagli iraniani al pari di Soleimani e Raisi ci sono tutti, anche se voglio pensare (a questo per un mio ingenuo pregiudizio positivo verso la Persia) alla buona fede di Teheran, un’obiezione che però non esclude che si siano effettivamente voluti sbarazzare di un’altra pedina divenuta scomoda.
Per quanto sia imbarazzante, la mia opinione per certi versi ricalca quella dell’arabista parigino Gilles Kepel (che in ogni sua intervista rassicura di non essere di origine juive, pertanto molto probabilmente lo è), il quale in questi giorni sta dicendo alla stampa di mezzo mondo che una parte dei servizi iraniani ha venduto Hezbollah perché ha capito che Israele è imbattibile e vuole calarsi le braghe in modo onorevole. Tuttavia il ragionamento, se ha una sua logica, porterebbe a pensare che qualsiasi cosa avvenga in quella nazione sia sempre e comunque “manovrata dall’alto”, giochetto che riesce facile se la si pensa come una spietata dittatura dove i pasdaran fanno a gara a sparare in testa alla gente dai palazzi.
La vicenda si può viceversa raccontare da un’altra prospettiva: è vero che una parte del popolo iraniano è storicamente filo-occidentale e pur di veder sparire le palandrane al potere regalerebbe un pezzo di Paese agli israelo-americani, ma c’è anche una “zona grigia” molto più ampia che trova snervante uno stato di guerra perpetua e vorrebbe giungere a un appeasement almeno con Washington senza rinunciare in alcun modo agli ideali rappresentati dalla Repubblica Islamica. Questa fazione senza dubbio si esprime anche ai “piani alti”, garantendo una qualche dialettica persino nel “sanguinario regime” degli ayatollah.
È probabile dunque che l’avvento al potere del “moderato” e “riformista” Masoud Pezeshkian, che in ogni caso gli “occidentalisti” avevano invitato a non votare in un appello generale allo “sciopero elettorale”, sia una mossa dettata dalla necessità di raggiungere un accordo con gli Stati Uniti anche nello scenario sfavorevole di una vittoria di Donald Trump. Per questo parlo di “buona fede” persino nel consegnare al nemico se non direttamente la testa di Nasrallah, come minimo quella di Ismail Haniyeh, con un accordo sottobanco.
Ragionando solo per logica e lasciando da parte qualsiasi convinzione personale, anche il sionista più sfegatato dovrebbe ammettere che se Teheran fosse davvero la capitale mondiale dell’antisemitismo, le sue mosse sarebbero state dettate da due dogmi quali il controllo totale della lobby ebraica sul Congresso americano e l’incapacità di fidarsi di qualsiasi parola proferita da labbra giudaiche.
Ora, è lo stesso Primo Ministro finlandese Alexander Stubb, espressione di quel conservatorismo europeo schierato per principio con Israele, ad aver affermato durante un’intervista a Smotri (sì, sono russi, ma avrebbe potuto dirlo da qualsiasi parte visto che considera Nasrallah solo e soltanto un terrorista) che “Netanyahu ha detto che avrebbe accettato la proposta di cessate il fuoco con il Libano, ma una volta arrivato a New York la sua retorica è diventata completamente diversa” (link su Telegram).
Il finalndese sta chiaramente parlando per Washington, che ugualmente ha avuto modo di manifestare il proprio disappunto pur dovendo sempre “fare buon viso a cattivo gioco” persino nel momento in cui i suoi interessi nell’area divergono con quelli israeliani. Ciò potrebbe aiutare a chiarire quali propositi (traditi) ci siano dietro l’apparente “arrendevolezza” iraniana, a meno di non voler ipotizzare un masochismo innato nei persiani.
Non è vero che Teheran se la fa sotto perché Israele ha le atomiche: in caso di conflitto mondiale, Mosca e Pechino sarebbero praticamente costrette a intervenire, e solo chi ha una bandiera americana piantata nel cuore o nel cervello si illude che finirà come in Afghanistan o in Iraq (con noi che ci fingiamo anti-imperialisti in pantofole mentre i droni spiaccicano milioni di “negri del deserto”).
Non è vero neanche che l’attendismo di Teheran sia motivato dalla mancanza di “carte in mano”, perché è ovvio che le elezioni americane rappresentano un fattore cruciale in base al quale decidere le proprie mosse: non è detto che la forza bruta sia espressione di un pragmatismo, a meno di non voler confondere il fioretto con la clava. Perché al contempo lo stesso Israele sta aumentando le provocazioni in base alla propria logica, per mettere una eventuale dirigenza democratica di fronte al fatto compiuto, oppure costringere Trump a cementificare i cosiddetti “Accordi di Abramo” a suon di bombe (in tal caso, è vero, Russia e Cina non interverrebbero).
Del resto, è Jared Kushner in persona (il rappresentante della fazione trumpiana nella nota lobby) a inserire, in una dichiarazione ufficiale, l’uccisione di Nasrallah nel nuovo piano per il Medio Oriente che il suocero -o chi per esso- ha intenzione di porre in essere, e tra le righe nella sua analisi si legge la possibilità di un ruolo di Teheran quale “finto nemico” come lo è sempre stato sia negli anni del conflitto iracheno (in cui le sue milizie sciite hanno fatto parecchio lavoro sporco per gli yankee), sia nei frangenti in cui ha consentito tacitamente che Soleimani venisse “neutralizzato”.
Se questo comporterà la fine degli ayatollah tramite l’ennesima rivoluzione colorata (ma ricordiamoci che Assad non ha fatto la fine di Saddam o Gheddafi), allora persino il nuovo Iran “arcobaleno” avrà diritto a ottenere un contenimento dell’espansionismo sionista (nonché sunnita, perché talvolta i “semiti” si muovono in parallelo) nella regione. Qualora nemmeno tale scenario si verificasse, diventerà difficile tacciare di “antisemitismo” chi pensa che l’influenza della lobby ebraica su Washington sia talmente potete da condurre gli Stati Uniti all’autodistruzione, ad onta di chi è convinto che a tenere le redini siano sempre e comunque gli yankee.
[1] Devo assolutamente scrivere qualcosa per Hassan Nasrallah, il grande segretario (lo voglio definire così, non leader o capo, perché al di là delle palandrane era un uomo profondamente pragmatico) di Hezbollah. Chi in queste ore ridacchia è uno psicopatico al pari dei fottuti israeliani, che nella loro “operazione chirurgica” hanno come al solito ucciso migliaia di civili con un bombardamento a tappetto in una zona residenziale.
Tale è la “dimostrazione di forza” che potrebbe dare solo uno squilibrato bisognoso di qualcuno che lo tenga a bada. In questi frangenti sproloquiare di una “superiorità obiettiva” di Israele nell’area è segno di una sudditanza agli ebrei la quale, a meno che non abbia origine psicologica, andrebbe ricercata in una “memoria del sangue” che, grazie al cielo (o a qualsiasi divinità che non sia Yahweh), non è la mia.
Nasrallah è morto da martire e in questo momento l’onta pesa solo sulle spalle dell’Occidente: non c’è stata alcuna rivoluzione colorata a ghigliottinarlo in piazza, nessun processo “pseudo-popolare” che lo appendesse a testa in giù, e neppure le foto del “terrorista” in mutande arrestato da qualche mercenario di Giuda. Israele, nella sua foga da cane rabbioso ha nobilitato per l’ennesima volta i propri nemici, come del resto fa da millenni, con l’usuale scempio contro l’umanità.
Questa volta, ciliegina sulla torta, la strategia del chiagni e fotti è stata introdotta dalla sceneggiata isterica di Netanyahu all’Onu (definita direttamente al Palazzo di vetro come “fogna antisemita”), che ancora prima aveva rivolto un messaggio ai libanesi dicendo che l’obiettivo di Israele era solo Hezbollah. Come a Gaza, quando era solo Hamas. Avrà convinto i “moderati” del Paese nemico, così come ha convinto i “moderati” palestinesi? Penso proprio di no, visto che persino dalle parti degli Alleati dello Stato ebraico la voce più popolare suoi social è un certo Adolf Hitler, ritornato negli ultimi mesi come influencer di successo su TikTok.
Il gioco dei sionisti, sostenuto dall’alacre lavorio della nota lobby a Washington, è fin troppo scoperto: istigare a una qualsiasi reazione Teheran per trascinare l’Occidente in guerra. La loro guerra, s’intende. Non ho ben capito quale raffinata strategia si nasconda dietro a un comportamento che ricorda il leccapiedi del bullo di quartiere, che secondo le logiche da film americano con cui siamo costretti a giudicare gli eventi non mi pare che alla fine della storia faccia una bella fine (Hollywood non ha prodotto solo pellicole d’azione).
L’Iran continuerà a “portare pazienza” e noi confonderemo con pavidità e timore l’unica testimonianza di ragionevolezza di fronte al delirio d’onnipotenza di un popolo senza più alcuna bussola morale (posto che l’abbia mai avuta). Davvero c’è qualcuno convinto che gli iraniani stiano reagendo solo in base al terrore e che piuttosto che dichiarare guerra a Israele preferirebbero farsi umiliare eternamente dagli ebrei? Nella prospettiva di un conflitto mondiale, Teheran non rimarrebbe di certo isolata come avrebbe potuto essere eventualmente anche solo dieci o vent’anni fa.
È impossibile ricordare Nasrallah senza parlare solo e soltanto dell’attualità, ma qualcosa in più va detta. Io sono ostile alle “tifoserie” (mi accontenterei di fare il “tifo” per la mia nazione, se non esistesse solo nominalmente), e dunque non posso perdermi in eulogie di circostanza per un “martire” con il quale non condivido nemmeno la fede. Tuttavia, la grandezza almeno politica (non parlo di quella umana) del capo di Hezbollah è innegabile: solo tramite il suo carisma (il lato umano rimerge sempre) riuscì a unire sotto un’unica bandiera, l’insegna del Partito di Dio, masse di libanesi disillusi e senza più alcuna guida, trasformandoli in combattenti invincibili, in grado di tenere testa a qualsiasi nemico.
Anche Nasrallah, sembrava immortale: il suo esempio è obiettivamente inimitabile è forse è questo il principale fattore di sconforto nei suoi seguaci. Con lui al timone Hezbollah era stato finora in grado di gestire i delicati equilibri etnico-religiosi e ideologici-politici del Libano, unendo a un fortissimo identitarismo sciita a livello interno un approccio “ecumenico” (lato sensu) alle realtà nazionali e internazionali, che aveva reso Nasrallah un’icona rispettata da tutti nel frastagliato panorama libanese.
C’è un canto di guerra di Hezbollah che non riesco più a ritrovare (se non in versione mutilata su Shia.tv) ma il cui ritornello risuona ancora sulle macerie, Labayk ya Nasrallah: chi ha prestato giuramento (Shahada) per il Partito di Dio seguirà il cammino di Allah (Namdi Fi Sabilillah) fino al martirio.