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Nel cuore oscuro del sogno hippie

Nel cuore oscuro del sogno hippie. Spie, assassini e rockstar nella Hollywood degli anni ’60 è un libro del giornalista losangelino David McGowan (1960-2015) che aspettava da qualche anno (2014) di essere tradotto. Ci ha pensato Bibliotheka Edizioni in collaborazione con Radio Rock FM 106.6 e, nonostante qualche refuso, faccio loro i complimenti per aver portato coraggiosamente in Italia un’opera del genere.

Ci vuole infatti coraggio a pubblicare il bestseller di McGowan (deceduto l’anno seguente la pubblicazione per cancro) che oltre all’accusa scontata di complottismo rischia anche quella di iconoclastia, per l’irriverenza -oserei dire la spietatezza– con cui distrugge gli idoli della controcultura e miti del rock anni ’60 e ’70.

Ad ogni modo, si tratta di una lettura consigliata, nonostante chi è completamente a digiuno della tematica (che parte dall’idea che i servizi segreti americani abbiano creato la controcultura freak per distruggere dall’interno il movimento pacifista e giunge fino all’estrema ipotesi che quel complotto politico, per mezzo del famigerato progetto MKULTRA, sia stato il brodo di coltura per la proliferazione dei serial killer) potrebbe provare un senso di vertigine a cospetto della prosa sinuosa, dello stile eclettico e della tendenza a “saltare di palo in frasca” dell’Autore.

Il “novizio” potrebbe altresì perdere il lume della ragione nel discernere fatti obiettivi e dimostrabili dalle congetture (a volte ai limiti della fantasia) del McGowan, che non si risparmia divagazioni su date, coincidenze e sincronicità ai limiti del paranoico (il Nostro non è nemmeno avaro dei “a quanto si dice” e, anche in virtù di una penna vivace, non teme la qualifica di “cazzaro”). Da tale prospettiva, Nel cuore oscuro del sogno hippie rischia di far più male che bene, suscitando una reazione di rigetto per i troppi “puntini” collegati fino a fare un pastrocchio, oppure, all’opposto, portando il lettore a indossare un cappellino di carta stagnola e credere in qualsiasi complotto (cioè a ridursi come il sottoscritto).

Il modo migliore per approcciare una tematica che, seppur ostica, credo sia allettante per molti, è partire da qualche punto fermo. In primo luogo: è vero che tutti gli idoli del rock anni ’60-’70 sono figli di individui legati al mondo dell’intelligence e all’ambito militare? La risposta è sì e per verificare il singolare fenomeno basta anche solo fare un giro su Wikipedia: il padre di Jim Morrison, l’ammiraglio George Stephen Morrison, fu persino protagonista del famigerato “incidente del Golfo del Tonchino” che fece iniziare la guerra in Vietnam; il padre di Frank Zappa era perito chimico per presso l’Edgewood Arsenal, centro di ricerca per la guerra biologica gestito dall’esercito statunitense; John Phillips dei Mamas & Papas discendeva addirittura da una dinastia militare, come David Crosby (i Byrds e Crosby, Stills & Nash). Eccetera eccetera.

Secondo punto: è vero che i protagonisti di tale controcultura erano dei piccoli Charles Manson in fieri che costituivano le loro comunità di ragazzi strafatti di LSD e ragazzine minorenni con cui accoppiarsi compulsivamente e le gestivano in maniera dittatoriale? Sì, e parliamo ancora degli Zappa, dei Morrison, delle “Mamas” e dei “Papas”.

Terzo punto, forse il più importante: è vero che tutta la baraonda partì “magicamente” da un quartiere di Los Angeles, Laurel Canyon, che dal giorno alla notte si trasformò in un polo d’attrazione per decine, se non centinaia, di aspiranti musicisti che sarebbero in pochi mesi diventati protagonisti di quell’epoca? Sì, e anche questo è facilmente verificabile su Wikipedia.

Tutto il resto, al di là delle informazioni che McGowan ricava dalle numerose biografie -autorizzate o meno- degli idoli del rock (come i riferimenti alle “doppie personalità” di quasi tutti loro, nonché i legami tra Charles Manson e i Beach Boys, o le squallide vicende personali di “Papa” John Phillips, incesti compresi), rientra nel campo delle supposizioni ardite e delle congetture azzardate.

Un ambito, quello delle “ipotesi”, dove -bisogna ammetterlo- talvolta l’Autore esagera sia per difetto che per eccesso: se, per fare un esempio, in molte parti aggiunge davvero troppa “carne al fuoco” (come quando inserisce qua e là un omicidio seriale, si veda l’epilogo dedicato al cosiddetto Dating Game Killer Rodney Alcala, che non ha molto a che fare con l’argomento in questione [*]), in altre invece è avaro di dettagli e sembra trattenere conclusioni quasi scontante. Mi riferisco, tanto per dire, al capitolo sui Doors, che non risponde pressoché a nessun dubbio avanzato in esso, e cioè: perché la band apparve dal nulla come un’entità già fatta e finita nonostante il loro stesso produttore ammettesse che “come musicisti non erano capaci”? Come fece Jim Morrison a comporre in un batter d’occhio decine di capolavori senza nemmeno saper suonare uno strumento (“Forse le canticchiava?”, si domanda retoricamente McGowan)? E poi, perché non dilungarsi un po’ di più sulla scomparsa del “Re Lucertola”, piuttosto che buttar lì -peraltro in un diverso capitolo- che forse “potrebbe non essere morto a Parigi il 3 luglio 1971″?

Un discorso simile andrebbe fatto riguardo al capitolo conclusivo, dedicato alla nascita del punk e della new wave, nel quale il giornalista accusa velatamente la dinastia Copeland (Miles, Ian e Stewart) di aver messo in piedi il movimento per conto della CIA: una “pista” che andava battuta più a fondo, anche perché è una conclusione per niente campata in aria. Non so se McGowan avesse in mente un libro a parte da dedicare al punk, ma di certo non si può incolparlo di non averlo scritto; mi limito solo a osservare che anche nel piccolo spazio di un capitolo avrebbe potuto fornire uno scenario più completo.

Ad ogni modo, se questi erano i limiti che andavano evidenziati, nulla di quanto osservato toglie valore al libro in termini di spunti e “pionierismo”. E se proprio diffidate del complottismo, almeno dategli un’occasione come romanzo di spionaggio, perché una lettura la merita sempre e comunque.

[*] Il capitolo sull’assassino Alcala è in realtà un espediente da parte dell’Autore per “promuovere” un altro suo best-seller, Programmed to Kill. The Politics of Serial Murder, risalente al 2004, che affronta il fenomeno dei serial killer dalla prospettiva degli esperimenti di guerra psicologica della CIA, dei culti dell’élite e dell’occultismo. Anche questo libro sarebbe meritevole di traduzione, e se c’è qualche editore interessato mi offro volontario…

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