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Nel mondo c’è troppo antirazzismo?

In Italia arrivano con il contagocce i dettagli sull’atroce fine di Lola Daviet, dodicenne parigina violentata, soffocata e chiusa in un baule con la testa mozzata da una ventiquattrenne algerina, di cui non sappiamo nemmeno il nome (Dahbia, Dahiba, Dabiah?).  Non è colpa della stampa nostrana, ma di quella dell’oltralpe, che ha imposto una sorta di consegna del silenzio sul caso per non mettere in difficoltà il Macron-bis: l’algerina era infatti stata raggiunta da un provvedimento di espulsione mai posto in essere, e il fatto che continuasse ad aggirarsi per la città importunando chicchessia non fa che aumentare lo sdegno per l’accaduto.

Il problema fondamentale è che lungi dall’abbozzare almeno delle pseudo-scuse, i rappresentanti del macronismo, costretti a parlare del brutale omicidio, hanno mostrato un’arroganza disarmante: il ministro della Giustizia Dupont-Moretti ha accusato la destra di servirsi della bara della dodicenne come se fosse un “predellino” [marchepied]; il ministro dell’Interno Darmanin, quello che faceva il duro contro “l’ideologia islamista”, ha trovato parole di comprensione per l’assassina, a suo dire “vittima di violenza domestica”.

Non mi va di scendere nei dettagli, perché ciò che ha fatto Dahiba/Dabiah/Dahbia (per semplificare d’ora in avanti la chiamerò Merdahbia) è inenarrabile: dalle sparute cronache (guidate dalle gazzette conservatrici) si apprende che l’algerina, risentita dal fatto che i genitori di Lola, portieri dello stabile in cui viveva sua sorella, non le avrebbero consegnato il badge per entrare e uscire quando voleva (non per razzismo, sia chiaro, ma a causa degli evidenti segni di instabilità mentale che mostrava), avrebbe attirato la loro figlia dodicenne nell’appartamento della sorella, per violentarla (“Ho messa la sua testa tra le mie gambe e ho avuto un orgasmo”) e poi soffocarla. Una volta ucciso la ragazzina, ha infierito sul suo corpo a colpi di forbici e coltello, arrivando quasi a decapitarla, e ha raccolto il suo sangue in una bottiglia per berlo. Come ultimo atto ha lasciato il corpo in una cassa abbandonata nello stesso cortile del palazzo, infine ritrovata da un altro clochard.

Merdahbia era entrata legalmente in Francia nel 2016 con un permesso di soggiorno per studenti; lo scorso agosto, fermata in un aeroporto per mancanza di un nuovo permesso, era stata invitata a lasciare il territorio francese. Anche per il comportamento mostrato in questi mesi non avrebbe dovuto trovarsi in Francia, punto. Eppure, dopo giorni di sfuriate da parte della destra (dai gollisti a Le Pen e Zemmour), il governo Borne-Macron è riuscito solo a dire che “farà meglio” sull’immigrazione.

Non so se si può definire questa atrocità un “delitto dell’immigrazione”, come hanno fatto anche alcuni politici di centro-destra. Personalmente ci metterei di mezzo anche l’antirazzismo. Il discorso è complesso, ma se a questa povera ragazza fosse stato insegnato (in maniera sbagliata e ignorante e vergognosa) a giudicare le persone dal colore della pelle, o almeno dalla nazionalità, forse avrebbe avuto qualche remora in più a seguire una tizia scuretta e dalla grammatica incerta. Cercherò di spiegarmi meglio nel corso della mia tirata; per ora veniamo alle cose nostre, cioè all’Italia.

Lo scrittore Erri De Luca, che dovrebbe rappresentare la nostra nazione in quanto intellettuale, si è fatto appena intervistare da Charblie Hebdo sul nuovo governo “fascista” della Meloni, riuscendo ad inanellare una notevole serie di castronerie e amenità: in primo luogo affermando che gli italiani non possono lamentarsi dell’immigrazione perché anche loro sono stati migranti e perché “tutti i settori economici soffrono di una mancanza di manodopera”, citando come esempio i “medici cubani chiamati dalla Regione Puglia”. A parte che è la Calabria ad averli chiamati (e questo già dimostra la preparazione di Erri), a parte che alcuni europarlamentari (di M5S, PPE e Ciudadanos) hanno descritto l’iniziativa come una “forma di schiavitù moderna” (a quanto pare il governo “proletario” de L’Avana si intasca la maggior parte dello stipendio e obbliga chi accetta il contratto a non lasciare il posto di lavoro pena il carcere), il fatto è che questo è esattamente il modello di immigrazione (basata sulla domanda di manodopera e il numero chiuso) che gente come Erri rifiuta in base ai propri dogmi ideologici.

Ma andiamo avanti: lo scrittore, ricordando l’era oscura in cui Matteo Salvini fu Ministro degli Interni, afferma che “durante quel periodo le aggressioni agli immigrati si sono moltiplicate”. Come direbbero i suoi compagni di partito sui social: Fonte? Nessuna. In realtà è una leggenda metropolitana fabbricata dai giornali, che montarono ad arte alcuni episodi di cronaca in cui il razzismo non c’entrava nulla (un uovo lanciato per vandalismo dal figlio di un consigliere del Partito Democratico addosso a un’atleta di origine nigeriana e un “esperimento sociale” di un insegnante con due alunni anch’essi nigeriani ribaltato dai media) per alimentare l’allarmismo a livello nazionale e internazionale.

In questi giorni si sta ripetendo un copione simile con il caso della pallavolista della nazionale italiana di origine nigeriana Paola Egonu (che Enrico Letta chiama “Enogu”), le cui dichiarazioni avventate dopo qualche partita non brillante sono state trasformate nell’ennesimo “allarme razzismo” dal solito apparato. In verità questa Egonu, nata in provincia di Padova da genitori nigeriani, oltre ad aver ottenuto la cittadinanza prima della maggior età semplicemente perché il padre l’aveva già ottenuta, è diventata una sorta di starlette per aver rivelato la sua omosessualità. Non a caso, oltre a esser stata scelta come portabandiera per le Olimpiadi di Tokyo, nel tempo libero conduce programmi televisivi e doppia cartoni animati. Dove sia il razzismo istituzionale e diffuso in tutto questo non si capisce…

In ogni caso, tali sono i fatti. Ora veniamo alle opinioni. Le mie opinioni, che valgono come quelle di chiunque altro (anche se rischio sempre una denuncia). Ricordo che quando ero adolescente, circa vent’anni fa (aiuto), uscire di casa il sabato pomeriggio era una sfida quotidiana. Sapevo che qualsiasi cosa avessi fatto, qualsiasi vestiti avessi indossato, sarei stato comunque giudicato: se mi vestivo da metallaro, le vecchie si facevano il segno della croce e mi guardavo male; se mi vestivo alla moda, le zekke mi trattavano come un villan rifatto; se mi vestito da zekka, i fighetti sputavano per terra o cercavano direttamente la rissa. La pressione sociale era fortissima e onnipresente. E sto parlando del primo decennio del XXI secolo vissuto in una metropoli, non della fine dell’Ottocento in un feudo borbonico.

Poi è iniziato il Grand Remplacement e tutte le regole sono saltate, anche in nome dell’anti-razzismo: prima nelle grandi città si è cominciato a vedere slavi, subsahariani e sudamericani fare il bello e il cattivo tempo in qualsiasi luogo pubblico; poi anche nei paesini quella sorta di “contratto sociale” non scritto basato sul pregiudizio e un’intolleranza “temperata” reciproca è finito nel cestino della storia. Inutile dilungarsi sugli aneddoti personali, sia perché chiunque non viva col paraocchi può rendersi conto di tale cambiamento, sia perché alla fine tutti hanno qualcosa di irrilevante da raccontare. Tuttavia, ora, se permettete, mi fa ribollire il sangue vedere persino nel più piccolo borgo in culo ai lupi, nordafricani e latinos schiamazzare sui mezzi pubblici a qualsiasi ora, apparire in pubblico conciati come se stessimo celebrando un eterno carnevale, bivaccare tutta la giornata nei cortili condominiali e infastidire chiunque entri nella loro visuale senza che nessuno si azzardi anche solo a sospirare. Dov’è il famigerato razzismo italiota? Dove sono le aggressioni sistematiche e quotidiane?

Voglio dire, almeno la si smetta con l’allarmismo e la propaganda perché si stanno trasformando in una tortura psicologica. Il tessuto sociale italiano è stato radicalmente modificato nel giro di pochissimi lustri, nelle peggior condizioni possibili (a livello politico, economico, culturale), eppure non è spuntato fuori alcun Ku Klux Klan, né si è mai visto esposto un solo cartello “non si affitta ai marocchini”. Anzi, se ci mettessimo a fare i conti scopriremmo che il bilancio degli episodi di intolleranza probabilmente è alla pari, considerando il forte identitarismo con cui vengono allevati gli immigrati di seconda generazione.

Per esempio, non esiste tra le cronache un solo episodio in cui dei ragazzini italiani siano saliti su un autobus intonando cori razzisti, mentre invece questa cosa è successa su una linea del bolognese, e a farla è stata una variopinta folla afro-magrebina (“Chi non salta italiano è”). Inutile chiamare in causa le curve degli stadi, perché è accettato socialmente che quei luoghi rappresentino degli “sfogatoi” e in ogni caso le sanzioni contro le tifoserie sono piuttosto dure e a volte demenziali (mentre una folla di marocchini razzisti contro gli italiani non subirebbe, ovviamente, alcuna “punizione collettiva”).

Ognuno poi può vedere le cose dalla propria prospettiva, è chiaro. Ma è innegabile che le paranoie antirazziste siano più reali di qualsiasi “razzismo istituzionale”. Gli esempi tra gli anglosasky sono innumerevoli. Ricordiamo le grooming gang di pakistani diffuse su tutto il territorio inglese, organizzazioni mafiose dedite letteralmente alla “tratta delle bianche” che la polizia britannica si è rifiutata per anni di sgominare proprio per timore di “fomentare le tensioni razziali” (è una dichiarazione del questore di Rotherham, epicentro dello scandalo nazionale). Oppure, tanto per citare un episodio, quando  nel 2017 gli addetti alla sicurezza del concerto di Ariana Grande a Manchester, dove poi ci fu un attentato, rinunciarono a perquisire un individuo sospetto perché appunto timorosi di essere etichettati come “razzisti”.

Negli Stati Uniti il fenomeno è probabilmente ancor più pronunciato, tanto che si potrebbero scrivere interi trattati sociologici sull’antirazzismo “istituzionale”: con tutta la propaganda riguardante il fenomeno Black Lives Matter (ma è noto che la polizia americana uccide più bianchi che neri, anche in proporzione alla gravità dei crimini commessi) negli ultimi anni le vittime si rifiutano addirittura di rivolgersi alle forze dell’ordine perché temono arrivi uno sbirro bianco pronto a freddare su due piedi il loro aggressore nero. L’ultimo caso è quello di una commessa di una stazione di servizio perseguitata da un afro-americano, che dopo aver ripetutamente rinunciato ad avvertire la polizia perché “abbiamo tanti avventori di colore” si è infine decisa quando il fratello nero ha iniziato a sbatterle la testa sui bancali per violentarla. E ancora adesso si fa problemi a parlarne, chiedendo dal letto di ospedale se è sua “la colpa di tutto questo”.

Per tornare da dove siamo partiti, cioè la Francia, lì la situazione è compromessa ormai da tempo (da secoli, direi), e anche la forma moderna di antirazzismo “di stato” ha iniziato ad affermarsi a partire dagli anni ’70. Adesso il Paese è nella situazione in cui sono gli stessi arabi a chiedere alle istituzioni di “diversificare” i loro quartieri popolati esclusivamente da nordafricani. Nel Paese della laïcité tutte le istituzioni, dalla scuola alla polizia, hanno abbandonato il loro compito anche per il terrore di sollevare il minimo sospetto di “intolleranza”.

L’Italia ha seguito un percorso differente traendone vantaggi e svantaggi: da una parte, la mancanza di un risentimento “anti-colonialista” (se non una generica avversione per l’uomo bianco) ha impedito l’insorgenza di un identitarismo di stampo etnico-religioso nelle comunità immigrate; dall’altra, il fatto che la stragrande maggioranze degli stranieri giunti in Italia non conosca la lingua del Paese che li ospita ha reso il processo di integrazione molto più complesso. Inoltre c’è la questione della “tempistica”: quanto successo alle province di Macerata o Ferrara nel giro praticamente di una legislatura, nelle regioni amministrative transalpine è avvenuto, come ricordavamo, nel corso di decenni.

Tuttavia dalle nostre parti la “talpa antirazzista” ha lavorato alacremente impedendo il sorgere di qualsiasi forma di intolleranza, anche la più plebea e viscerale. Inoltre gli italiani erano troppo impegnati a essere razzisti tra di loro per potersi preoccupare anche di subsahariani e bengalesi. In effetti gli unici reali episodi di razzismo a cui ho assistito in vita mia riguardano più i terroni che non gli stranieri. Il bon père de famille lombardo-veneto-emiliano ha accettato che le proprie figlie si accoppiassero con magrebini e albanesi piuttosto che lasciarle a napoletani o “cubano-calabresi”. E adesso vediamo una ridda di nonni boomer portare a spasso i nipotini mulatti mentre la loro madre (ovviamente single) lavora al centro estetico o al nuovo discount (o eventualmente sta cercando un beta provider su Tinder). Anche qui, dov’è il razzismo intrinseco e midollare del Bel Paese? Se avete assistito a qualche scena del tipo Indovina chi viene a cena raccontatemela perché almeno mi ricredo (volevo dire “rincuoro”).

Non dico che ci vorrebbe più razzismo (in ogni caso sarebbe solo una provocazione); tuttavia, escludendo qualsiasi tipo di violenza, si potrebbe almeno a) stabilire delle regole di convivenza civile; b) farle rispettare. Per fare un esempio che non smetterà mai di irritarmi: perché il principio che si possa usufruire gratuitamente dei servizi di trasporto pubblico deve valere solo per gli stranieri? Questo atteggiamento clownesco da parte dei controllori non può essere continuamente tollerato, anche perché si traduce in modo inversamente proporzionale nell’accanimento nei confronti di quell’italiano che, dopo una vita da “ultimo dei fessi”, cerca per una volta di “fare il furbo”.

Del resto, non credo debba esser considerato domandarsi se una minima percentuale di etnocentrismo non sia necessaria per definire una società in quanto tale: altrimenti non si arriverebbe regolarmente allo psicodramma ogni volta che si chiede il rispetto di una regola a un “diversamente bianco”. Cioè, a un certo punto dovranno pure finire i vittimismi e i piagnistei e si dovrà almeno pensare a come convivere assieme, a immaginare realmente a un futuro multietnico, multiculturale e tutto quello che volete? Oppure la consapevolezza che questa “cosa” non potrà mai funzionare porterà a spostare il traguardo della società multi-tutto sempre più in là, inventando continuamente immaginari ostacoli razzisti?

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