Alla fine dello scorso luglio una trentatreenne è stata uccisa a coltellate durante una passeggiata serale estiva a Terno d’Isola (in provincia di Bergamo): i media ne hanno parlato per un mese solo per la malcelata speranza che il colpevole fosse il suo fidanzato (italiano), mentre poi è saltato fuori che ad aggredirla sarebbe stato un altro italiano, di nome… Moussa Sangare.
Naturalmente le gazzette hanno fatto a gara per sbattere “l’italiano” in prima pagina, seppur comunque obbligati a specificarne la reale origine all’interno degli articolo, una questione sulla quale peraltro è stata fatta altrettanta confusione: tale Sangare sarebbe risultato in principio magrebino, poi ivoriano e infine maliano. Proprio per sopperire all’incertezza, dovuto anche al fatto che l’africano sarebbe a tutti gli effetti cittadino italiano, mi limiterò a definirlo “negro” senza alcun intento razzista.
Ora, questa vicenda pullula di punti dolenti: in primo luogo, è un dato di fatto che il caso verrà immediatamente “insabbiato” perché le sue caratteristiche non rientrano nel paradigma di “figlio sano del patriarcato”, il mulino a vento preferito delle femministe di nuova generazione. La stessa dinamica si è potuta osservare macabramente in “diretta” nei giorni dell’affaire Turetta, quando sempre in Veneto una donna incinta è stata uccisa a coltellate e martellate dall’ex amante, un kosovaro: non è un caso che di un “femminicidio” si parla ancora a distanza di mesi mentre l’altro è sparito dalle testate il giorno successivo.
Su tale doppiopesismo mi pare si sia discusso abbastanza, e del resto è osservabile da chiunque non abbia particolari interessi (ideologici, ma anche psicologici) per ignorarlo. Questo episodio di cronaca tuttavia si intreccia con un altro dogma del sistema che ci soggioga, riguardante il fantomatico ius scholae, argomento su cui si è dovuto dibattere, grazie alla destra al governo, in queste settimane.
Per come si sta svolgendo il confronto a livello mediatico, sorge il sospetto che i “padroni della voce” non aspettino che l’approvazione di qualche provvedimento del genere (come conseguire la licenza elementare per diventare a tutti gli effetti un “italiano vero”) solo per il gusto di poter parlare di omicidi, stupri, risse, aggressioni e rapine indicando in tutta tranquillità la nazionalità “italiana” del reo. Anche su questo argomento mi pare ci sia una qualche consapevolezza se nei gruppi Whatsapp circolano meme di questo tenore:
Le dichiarazioni del procuratore di Bergamo, una bionda slavata dall’occhiale leopardato, che con tono pedissequo ha affermato che “non c’è nessun movente religioso, di odio razziale o di terrorismo” e ha poi buttato lì una delle frasi di circostanza più fuori luogo che si possano dire in questi frangenti, ovvero che la vittima “si trovava nel posto sbagliato al momento sbagliato”.
Sulla questione del movente, Sangare infatti avrebbe dichiarato alle forze dell’ordine questo: “L’ho uccisa tanto per farlo, ho avuto un raptus improvviso. Non so spiegare perché sia successo, l’ho vista e l’ho uccisa“. Personalmente ho qualche dubbio, e visto che si sta parlando di un assassino, mi permetto di insinuare ciò che voglio.
Alla luce della sua biografia (o per meglio dire di ciò che viene narrato, forse a scopo apologetico, dalle gazzette), dalla quale risulta che volesse fare il cantante rap col nome d’arte di Moses Sangare e partecipare a un talent show, mi pare si tratti di una classica storia di “integrazione” come la vorrebbe la sinistra globalista, cioè il cursus honorum dello straniero “che ce l’ha fatta” diventando artista (preferibilmente trapper), giornalista (preferibilmente progressista) o atleta (preferibilmente olimpionico).
In Unione Europea si tratta di un copione ben rodato; tanto per citare, mi torna alla mente il caso dell’attentatore di Charlie Hebdo, Amedy Coulibaly (anche lui maliano), che pochi anni prima di diventare terrorista aveva incontrato l’allora premier Nicolas Sarkozy in veste di “lavoratore immigrato modello”, oppure di uno dei tanti assalitori parigini, il giornalista Farid Ikken (di origine algerina), che nel 2017 è stato ucciso dalle forze dell’ordine dopo aver preso a martellate un poliziotto davanti Notre-Dame, che a e negli anni precedenti era stato ricoperto di medagliette e titoli onorifici dall’UE come “giornalista dell’anno” per aver scritto un articolo pro-immigrati.
Mi pare che qui si possa individuare una costante, seppur ancora difficile da comprendere, la quale sostanzialmente dovrebbe portare a riconoscere che “il peggior immigrato è quello integrato”, nel momento in cui uno straniero giunge a identificare il motivo del suo inspiegabile malessere (s’intende se interpretato con le categorie contemporanee) con i “bianchi” con cui è costretto a vivere. Non nego, ma è una mia ipotesi, che nel caso in questione abbia influito la breve permanenza in Inghilterra dell’assassino (rigorosamente in veste di lavapiatti), dove deve essersi radicalizzato non da una prospettiva “religiosa” (pur essendo musulmano), ma direi post-identitaria.
È nei Paesi di cultura anglosassone, infatti, che molti individui di origine araba, africana oppure “asiatica” (ma non si parla, ça va sans dire, di cinesi o filippini) maturano quel vittimismo che sfocia inevitabilmente in una violenza di carattere etnico qualora non ci siano altre motivazioni d’accatto (politiche o appunto religiose). Certo, è poco per dedurre che la vittima sia stata scelta in base al colore della pelle (e anche al genere, sempre però correlato alla carnagione), ma non è un caso che “nel posto sbagliato al momento sbagliato” c’è sempre un negro che ammazza un bianco.
E veniamo infine a questa oscena frase che ho sentito pronunciare troppe volte da giornalisti, sbirri e sinistroidi assortiti per poter mantenere ancora i nervi saldi. Una volta la si usava solo per incidenti o coincidenze incredibili; ora da almeno a dieci anni a questa parte è diventato un motto d’ufficio per descrivere il solito scenario. Ricordo di essermela dovuta sorbire nel 2013, quando il ghanese Adam Kabobo a Milano uccise a colpi di piccone tre persone (un quarantenne, un pensionato e un ventenne che stava aiutando il padre edicolante); l’ho risentita quando un trentenne di Biella, Stefano Leo, in una mattina d’aprile del 2019 è stato sgozzato mentre andava a lavoro da un marocchino che ha fornito la seguente motivazione:
«Ho colpito un bianco, basandomi sul fatto ovvio che giovane e italiano avrebbe fatto scalpore. Mi bastava che fosse italiano, uno giovane, più o meno della mia età, che conoscono tutti quelli con cui va a scuola, si preoccupano tutti i genitori e così via. L’ho guardato ed ero sicuro che fosse italiano. […] Volevo ammazzare un ragazzo come me, togliergli tutte le promesse che aveva, dei figli, toglierlo ai suoi amici e parenti».
Non mi interessa in alcun modo alimentare il “razzismo”, del quale però obiettivamente non vedo chissà quali manifestazioni in Italia (o almeno non nelle città dove gli immigrati delinquono di più). D’altro canto, trovo che ormai sia più che legittimo formulare accuse collettive nel momento in cui questo è diventato lo sport nazionale ogni volta che avviene un “femminicidio” per mano di un italiano (tutti i maschi -italiani- sono colpevoli e complici del patriarcato ecc…).
Certo, trovo amaramente ironico che le stesse “agenzie culturali” che fanno pressione sull’opinione pubblica per qualsiasi tipo di ius in grado di far diventare italiano chiunque abbia assaggiato nella sua vita una pizza o roba del genere, non capiscano che sbandiera la nazionalità italiana dell’assassino maliano e continuare a ripetere che “è nato e cresciuto in Italia”, lungi dal portare acqua al proprio mulino dimostra chiaramente che l’integrazione non passa dalla concessione della cittadinanza, anche perché l’espressione stessa ha perso qualsiasi significato.
Voglio essere ancor più provocatorio: se si parlerà ancora del caso in questione, sarà solo per attestare a squarciagola l’infermità mentale del colpevole, con conseguente “arenamento” (coatto) del dibattito nel momento in cui si dovrà parlare di un’altra categoria protetta, quella dei “pazzi” (qualcuno ricorderà quando a Civitanova Marche un uomo uccise un mendicante nigeriano ma la qualifica di “psicotico” non solo lo salvò dall’accusa di razzismo ma gli fruttò anche una benevola damnatio memoriae).
Perciò mi sento di dire che, quando qualsiasi norma sociale condivisa salterà, probabilmente rimarrà solo il “colore della pelle” come criterio con cui garantire un minimo di ordine in una comunità, soprattutto nel momento in cui non basterà più consolarsi del fatto che l’accoltellatore africano avesse ottenuto la cittadinanza italiana per aver vinto un talent show o un campionato di calcio dilettantistico.