Non moriremo meritocratici

I più ignorano che il termine meritocrazia originariamente nacque come sinonimo di tecnocrazia: venne infatti creato nel 1958 dal sociologo britannico Michael Young per identificare il controllo dittatoriale ed elitario dei potenti sulle masse. Per i casi strani della storia, in Italia la meritocrazia è diventata la panacea di tutti i mali che affliggono il “sistema-Paese”.

Tale evoluzione/involuzione semantica appare un po’ sospetta, considerando che in ambito anglosassone l’espressione mantiene ancora una certa ambivalenza: per esempio, il politologo canadese Daniel A. Bell (La democrazia non basta, “La Lettura” 17 maggio 2015), la considera una valida alternativa alla decadente e ipocrita democrazia occidentale e pone il Partito Comunista Cinese come modello di “grande organizzazione meritocratica” (sic).

Le sue considerazioni riguardanti il PCC (sulle quali almeno la stampa anglosassone ha avanzato qualche rilievo) implicano che le nostre società si adeguino al ritmo cinese in tutto e per tutto, evidentemente anche nelle statistiche sulle morti per eccesso di lavoro: in Cina si contano seicentomila decessi all’anno a causa di una patologia riconosciuta come 过劳死 [guò láo sǐ], che nella stampa occidentale è arrivata nella versione giapponese, karōshi (pratica che da tempo i meritocratici nostrani vorrebbero importare, persino in forma di mobbing: si legga lo “storico” articoli di Francesco Merlo per il “Corriere”, Mobbing, il mal d’ufficio, l’ultima trovata della filosofia buonista, 26 novembre 1998).

Ancora più imbarazzante è che il Bell consigli come metodo per aumentare il grado di meritocracy nelle nostre società l’introduzione delle quote rosa… Come nel PCC, giusto? Sì… Ma volendo sorvolare sui poveri cinesi, è obbligo tuttavia domandarsi come sia possibile conciliare l’aspirazione a premiare il “merito” con l’istituzione di “corsie preferenziali”. Non è che alla fine, in termini pratici, la “meritocrazia” si rivela essere la classica cooptazione condotta con mezzi nuovi, magari più adatti alla sensibilità delle classi dominanti del momento?

Dalla lotta di classe alla lotta di quote, quindi: invece di eliminare le diseguaglianze, ci si assicura il monopolio della discriminazione stessa, e poi si stabilisce chi può “vivere al di sopra dei propri mezzi” e chi no. Quelli che restano indietro sono sia cornuti che mazziati, poiché vengono per giunta ancora considerati dei “privilegiati” in quanto facente parte di quote fintamente considerate dominanti (ma in realtà ormai subalterne) come quelle di “maschio”, “bianco”, “eterosessuale”, “occidentale”, “italiano”, “cattolico”. Per farsi un’idea del livello a cui siamo giunti, segnalo la “campagna di sensibilizzazione”  Check your privilege lanciata qualche anno fa dall’Università di San Francisco per i suoi studenti (e poi replicata da altri istituti).

Ora, questi discorsi finalmente si cominciano a fare “nel cuore dell’impero”. Colpisce in particolare un articolo di David H. Freeman per l’Atlantic (The War on Stupid People, 15 agosto 2016) che, seppur pubblicato in clima pre-elettorale (dunque col rischio di violare le leggi anti-blasfemia pro-Clinton della stampa americana), ha il coraggio di dipingere seppur a grandi linee il volto del “nemico”, il medio-progressista che considerare il suffragio universale un errore storico da “correggere” con qualche iniezione di politicamente corretto e -appunto- un pizzico di meritocrazia:

«Quelli che si butterebbero da una scogliera piuttosto che utilizzare qualche brutta parola per descrivere razza, religione, aspetto fisico o disabilità sono entusiasti però di sganciare la s-bomb, la parola con la “s” (stupido): a ben vedere, tacciare l’interlocutore di “stupidità” è diventato naturale in tutti gli ambiti in cui si discute».

Gli “stupidi” a cui si riferisce l’Autore, d’altro canto, non sono solo quelli col quoziente intellettivo basso o quelli che si bevono tutte le bugie della stampa (che in realtà ai meritocratici piacciono moltissimo, dato che è la loro propaganda a monopolizzare l’informazione); ma semplicemente sono

«i tanti lavoratori per i quali potrebbe presto “suonare la campana”: quelli che scarrozzano persone o cose, a causa delle macchine senza autista di Google, i droni-corriere di Amazon e i camion senza conducente appena testati sulle strade; oppure quelli che lavorano nei ristoranti, grazie a robot sempre più convenienti e accessibili realizzati da aziende come la Momentum Machines e a un numero crescente di app che consentono di prenotare, ordinare e pagare senza l’aiuto di un essere umano. Soltanto questi due esempi implicano la sparizione di quindici milioni di posti di lavoro negli Stati Uniti».

L’attacco fondamentale ai piedi d’argilla del paradigma politico-sociale-culturale-economico che è stato imposto all’opinione pubblica negli ultimi decenni giunge anch’esso sulla scia del malizioso recupero del significato originario della meritocracy:

«Il sociologo britannico Michael Young coniò il termine “meritocrazia” nel 1958 per una satira distopica. A quei tempi, il mondo che immaginava, in cui l’intelligenza determinava totalmente chi avrebbe fatto fortuna e chi sarebbe finito in miseria, era inteso come predatorio, patologico e inverosimile. Oggi tuttavia siamo giunti quasi a instaurare un sistema del genere, e abbiamo abbracciato con pochissime riserve l’idea di meritocrazia, considerandola persino “virtuosa”. That can’t be right. Le persone intelligenti hanno il diritto di sfruttare al meglio i loro doni: ma non gli dovrebbe essere concesso di rimodellare la società in modo da imporre il “talento” [giftedness] come criterio universale del valore di una persona».

Gli dèi del politicamente corretto impongono di non proseguire oltre il ragionamento, anche se sul banco degli imputati non dovrebbero finire solo gli “intelligenti” (soi-disant, naturalmente), ma tutti i coloro i quali anelano a creare una meritocrazia modellata sulla “categoria” alla quale appartengono (minoranza protetta, sia essa economica politica o sessuale), pretendendo poi attraverso di essa di conseguire privilegi da poter spacciare come meriti.

Questo “sistema” forse sta provvidenzialmente tramontando, grazie al più stupido di tutti, Donald J. Trump: mai più meriti, mai più quote, ma più un’esistenza low cost (la vita bassa di arbasiniana memoria). Non moriremo sottopagati e lobotomizzati, globalizzati e cinesizzati: in una parola, non moriremo meritocratici.

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