Non sapevo che “dissing” in italiano si traducesse con “frociaggine”

Voglio solo dire esprimere un paio di considerazioni (e poi dimenticare per sempre l’argomento) sul famigerato dissing (se così si può definire, ma io userei altri anglisimi, tipo catfight) fra Tony Ricciolino e Lucia (non riesco a chiamarli coi loro nomi d’arte, anche perché qui di “artistico” non c’è nulla): sono lieto che, al di là dei bambini delle elementari (già alle medie i gusti si fanno più “raffinati”), nessuno abbia preso sul serio questa schifezza, e che persino i normaloidi abbiano trovato modo di indignarsi per la bassissima qualità delle rime, oltre che per il sessismo e le sponsorizzazioni imbarazzanti.

La mia opinione sul rap e su tutti i generi da esso derivati è del resto semplice: si tratta forse dello stile più ghei che un uomo del XX e XXI secolo possa adottare a livello non solo musicale, ma anche morale, estetico e comportamentale. A dimostarlo ci sono le dicerie sui “rituali” che il buffone di turno, di solito afroamericano, deve compiere per entrare nel grande giro, che negli ultimi tempi sembrano essersi rivelate piuttosto verosimili con l’affaire Puff Daddy, che a quanto pare era uno dei capoccia addetto alla sodomizzazione degli aspiranti “duri del ghetto” (non è un caso che Tommy Ricciolino lo citi come esempio positivo di chi si “incula” gli avversari, nonostante non sia più possibile equivocare sul fatto che l’atto di infilare un pene nelle terga di un altro uomo fosse inteso in maniera letterale e non metaforica).

Naturalmente sto tagliando con l’accetta, tralasciando il contesto di apocalisse sociale che ha garantito un altrimenti immotivato successo al genere: si tratta comunque di giovani maschi senza padre (negli Stati Uniti è rarissimo che un nero non sia stato cresciuto solo dalla madre e abbia tutta una serie di fratellastri nati dai connubi più disparati), che possono trovare come unico modello virile di riferimento il deviato, il teppista, il vandalo e il drogato.

Taluni tuttavia, non reggendo i paradossi di dover esprimere la propria omosessualità con una retorica clownesca, cominciano a giocherellare con le pistole e si ammazzano a vicenda (attività che in ogni casi gli afroamericani praticano assiduamente tra loro senza bisogno di canzonette di sottofondo).

In Italia se non altro non abbiamo la “cultura delle armi”, ma che una disfida di tale tipo possa richiamare in qualche modo il vecchio detto ne uccide più la penna della spada non penso abbia mai sfiorato nemmeno i ragazzini delle elementari di cui sopra. E badate che non si tratta di snobismo, perché sarebbe straordinario se l’antico spirito trobadorico rifacesse capolino, anche in virtù di un’enigmatica “memoria del sangue”, nei petti dei menestrelli più plebei.

Purtroppo qui la discussione si deve obbligatoriamente limitare all’ambito extra-artistico, perché di “arte”, come detto, in questi cialtroni proprio non ce n’è, ma il fatto che addirittura si pieghino a sponsorizzare delle bibite rende impossibile qualsiasi valutazione seria anche al di là di ogni considerazione “estetica”.

Voglio dire, uno si fa rappresentante di una lattina di roba che non si sa nemmeno che gusto abbia (fragola?) e che persino i boomer disdegnano per rivolgersi, con sottofondo di AC/DC e Scorpions, a brand più accattivanti che comunicano immediatamente scenari come “ictus durante una sessione di stretching in palestra o una corsetta nel parco degli spacciatori senegalesi”; quell’altro invece promuove un intruglio pseudo-alcolico (che giustamente Tony Ricciolino definisce “al sapore di piscio”) descritto dal “Corriere della Sera” come “bevanda fun and flexible rivolta a un “pubblico giovane e salutista” in una lattina di “alluminio riciclabile al 100%”. No comment (c’è più virilità nella Fiesta della Ferrero, che peraltro contiene più alcol della tisanina di Zia Lucia).

Per quanto riguarda l’argomento “sessismo”, rientra nell’imposizione del bispensiero alle masse e dunque è tutt’altro che “politicamente scorretto” se espresso in tali modalità da gorilla degenerati: penso questa sia l’unica spiegazione possibile a una realtà in cui da una parte il “maschietto” viene dipinto come casalinga e massaia (in TUTTE le pubblicità l’uomo di casa fa la lavatrice, pulisce il pavimento, cucina e cambia pannolini) e dall’altra gli vengono proposti come “modelli” dei deficienti drogati e tatuati che un attimo prima lanciano una “linea di smalti” per “il maschio che non deve chiedere mai” (cito ancora il Corriere, lol) e dall’altra danno del “frocio” al competitor (in fondo stiamo discutendo di faide commerciali) perché sponsorizza borsette invece di trucchi.

Va bene, basta: discutere di queste cose degrada soprattutto chi perde tempo a parlarne. Posso solo concludere dicendo che ho più rispetto dei rapper svedesi che di certa gente, perché almeno quelli hanno il buon gusto di farsi ammazzare persino se sono dei biondini con gli occhi azzurri, tipo Einár, giustiziato a Stoccolma nel 2021 a 19 anni, oppure perché provengono realmente da un contesto criminale, come i “seconda generazione” dei quali l’ultimo rappresentante è tale C.Gambino (al secolo Karar Ali Salem Ramadan), ucciso tre mesi fa in un parcheggio di Göteborg.

Non che lo stile fosse poi diverso da quello dei nostri intrattenitori, come dimostrano i loro “canti del cigno”, dove il bel faccino svedese sostiene che per fare il ganster bisogna per forza spendersi tutti i ricavi dello spaccio nelle boutique di Prada e Balenciaga, mentre il marocchino almeno dedica un pensiero alla sua ultima spasimante, alla quale confessa “vorrei far di te una moglie e una madre” (tipico topos dei rapper “levatini”). Però un plauso alla coerenza va fatto.


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