Nuove osservazioni sulla vita di Leopardi (Cesare Lombroso)

Pubblico finalmente uno storico articolo di Cesare Lombroso dedicato al Leopardi che viene citato da molti seppur senza un’indicazione bibliografica precisa, essendo tratto dal numero 48 (e non 22) del 1895 de “L’Illustrazione Italiana” (pp. 342-343), consultabile presso il portale del BiASA (Biblioteca di Archeologia e Storia dell’Arte), in un formato digitale obiettivamente pessimo (ma a caval donato non si guarda in bocca).

Una prova che il nuovo indirizzo da me dato alla critica letteraria col mezzo della psichiatria e dell’antropologia criminale, è veramente fecondo, mi è data dai più recenti studi su Tasso, e su Byron, i quali inutilmente si potevano lumeggiare colla comune psicologia. Sventuratamente quell’indirizzo non è ancora compreso; e i nostri critici più eminenti, si perdono svenevolmente nelle più oziose minuzie letterarie, felici se tolgono dall’oblio qualche inutile frammento, che l’autore certo avrebbe vergogna d’aver scritto, felicissimi se cavano da quelle lettere, che egli voleva probabilmente nascondere a tutti, la rivelazione di una storia inutile o scandalosa; ma nessuno si dà dattorno per cogliere dalla vita vissuta dell’uomo, la spiegazione della sua opera, sopratutto quando questa vita accenna ad essere più triste o più patologica della comune. Essi sono integri di mente, et pour cause, non non immaginare che i geni siano malati; né solo si rifiutano all’ ipotesi, ma anche all’ ammissione del fatto, quando esso sia pur solennemente dimostrato. Un esempio singolarissimo ne dà il Leopardi. Credo che su questo grande le monografie, le critiche, sommino a parecchie migliaia; ma non ve n’è una forse, se si eccettui qualche linea di Magalahez e di Corradi, che paia pur sospettare della sua psicopatia. Ora solamente in questi ultimi tempi, un pensatore profondo, il professore Patrizi, già assistente all’illustre Mosso ed ora insegnante di Fisiologia a Ferrara, nativo dello stesso paese di Leopardi, e che per strana eccezione, oltre essere un fisiologo, è anche un letterato distinto, si occupato del Leopardi, seguendo la strada precisamente opposta a quella di quanti se ne occuparono finora, studiandolo cioè come un soggetto psichiatrico, e applicando le scoperte avute, specialmente dalle rivelazioni dei concittadini, dallo studio sui manoscritto, alla interpretazione delle sue opere. Ne è uscito un lavoro un lavoro del tutto novo, una vera rivelazione, di cui sono lieto di dare una primizia sfiorando le bozze che egli mi comunica (1).

Nell’indagine atavica il Patrizi ha potuto rimontare fin oltre al 1500, e trovò che i santi si alternano coi criminali, coi pazzi e con qualche uomo di genio. Egli ha trovato nel ramo paterno fin nel secolo XVI dei pazzi religiosi (Pernicolò 1591 – Paolo 1586 – Paolo di Giacomo 1733 – Carlo Drace e Francesco 1788 – Bernardino 1799); dei suicidi (Pier Leopardi 1614); degli omicidi e ladri (Pier Niccolò 1669 – Giacomo Antonio, ladro, 1468 – Piero Antonio 1462); alcuni ma pochi grandi ingegni: un Pier Tommaso 1409, letterato e guerrierio, un Pier Leopardo, erudito ma forse grafomane, Molando ecc. Fra i parenti della madre: Antici, spia politica, 1349, e Giacomo e Pierro, suoi nipoti, ladri, 1468 – Pietro Antonio suo bisnipote, pure ladro – Nicola 1580, dottore e ladro.

Dopo ciò è naturale che i caratteri degenerativi, le anomali così frequenti nei discendenti da pazzi e da criminali, fossero in Leopardi assai numerosi e basti questo primo elenco dato dal Patrizi.

Egli presentava prognatismo alveolare – Asimmetria del viso – Aspetto senile – Fisionomia muliebre – Gli orli labbiali sottili; l’orecchio sessile, poi nel campo fisiologico l’onanismo – la debolezza sessuale – l’iperstesia. – E nel campo psichico la eccessiva emotività, specialmente estetica, accanto all’ottusità morale ed affettiva. – L’ideologismo amoroso. – La religiosità morbosa della fanciullezza. L’abulia, e la impulsività, i trasporti al suicidio. – Il misoneismo, l’insociabilità, i dubbi patologici (capitolo VI, VII e VIII).

La follia degli scrupoli che aveva agitato i suoi avi, e non aveva rispettato neppure il fratello, lo tormentava. Le dubbiosità del poeta fan capolino tutta la sua vita. Lo zio Antici, che ebbe Giacomo presso di sè in Roma, notò l’eccessivo timore di lui per le malattie, e il Ranieri dice che il Leopardi, viaggiando, ordinava per paura di infreddatura la chiusura ermetica del coupé, e guai a rinnovare l’aria! Era coì spaventato del colera, che in presenza di lui non si poteva far motto dell’epidemia. Il Ranieri nel ritorno in villa a Napoli, egli il padrone di casa, si doveva per volontà del suo ospite, disinfettare non so quante volte.

Se uno dei medici diceva che la carne era troppa e il brodo troppo denso, Leopardi non voleva più saperne di carne, e voleva ingozzarsi di pesci e vegetali; appena uno di loro trovava che ha carne era pur necessaria, Leopardi non voleva più saperne di pesce e di vegetali, e voleva ingolfarsi di carne e di brodi densi come panna. Il medico trovava che la stanza aveva poca luce? Leopardi apriva le finestre, e si poneva col capo nudo al sole. Il medico diceva che per una discreta luce nella stanza non si doveva intendere di stare col capo al sole, e Leopardi voleva chiudere ogni cosa e ritornare alle tenebre più fitte.

Nè questa del dubbio era la sua sola follia che gli facesse commettere eccentricità. – Leopardi, per sua stessa confessione fantastico e pazzesco, scriveva alla sorella (8 febbraio 1831) che l’avrebbe fatta ridere raccontandole la sua propria vita; e persuadeva la madre a non desiderare il ritorno di un figlio, che avrebbe portato coi suoi strani modi di vivere, tanto incomodo in famiglia. Questa confessione, e la relazione mandata da padre Gatteschi a Monaldo, sulle stravagantissime abitudini del poeta a Firenze, ci fanno acccogliere per intero la testimonianza del Ranieri. Una delle più deplorabili impressioni, è il mostruoso disordine delle sue ore. Durante tutta la sua vita, egli fece press’a poco della notte giorno e viceversa; e ne lasciò, ovunque stette, una non amabile memoria.

Un’originalità di Leopardi e che resto fin impressa agli amici, è quella ripetuta negli inverni di Bologna, quando per lunghe ore stava rannicchiato in un sacco, malamente imbottito, e ne usciva pieno di peluria, in modo da parere, a chi lo vedeva, l’uomo selvatico.

*

Leopardi fu veramente un temperamento collerico ed atrabiliare. Qua e là dall’epistolario, dalle canzoni trapela la sua estrema irritabilità, che lo spingeva a dar la testa contro i muri, a gettarsi in terra gridando e fremendo (Lettera a Giordani, 23 aprile 1820). La sua corrispondenza in generale, ha scatti e sdegni. Quando giovinetto, viveva nella casa paterna, bastavano discorsi dell’anticamera, superficiali e allegri come tutte le conversazioni in genere, per farlo montare su tutte le furie, in preda alle quali, ritiratosi in un angolo buio, ruggiva come un piccolo leone.

Passeggiando assorto in pensieri nel corridoio della Biblioteca non vedeva né udiva i servi che scendevano a chiamarlo; a tavola non sembrava avesse coscienza di quanto si moveva e ragionava intorno a lui. A questi aneddoti dà valore storico, ciò che Leopardi ha scritto di sè stesso: “La mia vita è e sarà sempre solitaria, anche in mezzo alla conversazione, nella quale, per dirlo all’inglese, io sono più absent di quel che sarebbe un cieco e un sordo. Questo vizio dell’absence è in me incorreggibile e disperato. Se volete persuadervi della min bestialità, dimandatene a Giordano”.

Fatto questo importantissimo per chi sa che l’assenza è uno dei caratteri dell’epilessia, che secondo le mie ultime ricerche sarebbe la vera base del genio (2).

È vieto ricordare che tutta la sua opera è una glorificazione del suicidio, che uno dei punti più importanti della filosofia di lui, è il complesso di argomentazioni onde vuol convincere che per i cangiamenti apportati dalla civiltà sull’uomo primitivo, il suicidio non possa più ritenersi, come nelle epoche remote, un atto contro natura. La prova che lo spirito del Leopardi ruminava insistentemente delle idee di suicidio, si ottenne dal Patrizi, notando le volte che nei suoi componimenti o nella corrispondenza vi si ispirò o vi alluse, e disponendole per ordine di tempo.

1817 – Fu vicino ad uccidersi per amore. (Lettera al Melchiorri; 19 dicembre 1823). Pensò lungamente ad affogarsi nella fontana del giardino. (Ricordanze, versi 104-109).

1819 – Minaccia di “gittare in breve la vita”. (Lettera al Giordani, 29 luglio 1819). Allusione al suicidio nella “Vita solitaria”, scritta nel 1819.

1821-22 – Canta il suicidio in “Bruto minore” e nell'”Ultimo canto in Saffo [sic]”.

1824 – Ripetute allusioni al suicidio nella “Storia del genere umano”, nella “Scomparsa di Prometeo”, nel “Dialogo di un fisico e di um metafisico”, composti nel 1824.

1826 – Allusione al suicidio nell'”Epistola a Pepoli”

1827 – Compone il ragionamento sul suicidio nel “Dialogo di Plotino e Porfirio”.

1828 – “Mi viene una gran voglia di terminare una volta tanti malanni e di rendermi immobile un poco più perfettamente; perchè in verità la stizza mi monta di quando in quando: ma non temete, che insomma avrò pazienza infino al fondo di questa maledetta vita… (Lettera ad Adelaide Maestri, 24 giugno? 1828).

1821 – “L’aborrito o inabitabile Recanati mi aspetta, se io non avrò il coraggio di appigliarmi al solo partito ragionevole che mi rimanga”. (Lettera al De Sinner, 24 dicembre 1881). Allusione nell'”Amore e Morte” scritto tra il 1831 e il 1833.

E se egli, come anche altri apostoli del pessimismo, non ebbe il coraggio di metter ad effetto i suoi progetti suicidi, fu più che per altro, per un indebolimento del poter volitivo. “Gli uomini incodarditi e prostrati per l’uso dei patimenti sono meno pronti a volgere le mani contro sè stessi”, dice egli stesso (Storia del Genere Umano).

Questo contegno del Leopardi ci richiama alla mente una malata abulica, melanconica, descritta dal Dumas (Les états intellectuels dans la mélancholie). Costei s’affaticava risoluta di por fine ai suoi giorni, s’affaccendava minuziosamente nei preparativi necessari. Un giorno, dopo aver legato insieme i fazzoletti che dovevano servire a strangolaria, prorogoò il progetto per confessarsi; un altro giorno si cambiò di biancheria, per esser linda nel lenzuolo funerario, recitò ben bene le sue preghiere, raccattò una scheggia di vetro per aprirsi le vene, e la sera, -nell im minenza di portare a termino il suo proposito- s’arresto colla scusa che suo marito se ne sarebbe crucciato troppo; ma otto giorni dopo rivolgeva vive istanze ad un’amica per essere uccisa durante il sonno.

Sono curiose le osservazioni di Patrizi sui sensi del Leopardi. La sua sensibilità ai colori era debole; in tutte le sue opere una sola volta è nominato il violetto, 9 l’azzurro, e 17 il verde e il giallo, e 34 il rosso, e 66 luci miste e mezze tinte.

L’olfatto doveva essere dilicatissimo, 11 volte accenna ad odori nelle sue opere. Quanto al gusto pare non fosse prevalente che il dolce.

Par sicura ai Patrizi una grande debilità genetica che gli spiega una gran parte delle sue imprecazioni alle donne, e la tempra dei suoi amori, affatto ideologici.

*

La stima di sè stesso, come in tutti i geni, fu sconfinata in Leopardi, e data tale misura si immagina quanto più meschina dovesse apparirgli la propria sorte, e come ciò dovesse aggiunger esca al suo pessimismo. Poco più che adolescente scriveva nell'”Appressamento della morte” (Canto V):

Anco fanciullo son, mie forze sento
A volo andrò battendo ala sicura.
………………..Sento la viva
Fiamma d’Apollo, e il sovruman talento.
Grande fia che mi dica e che mi scriva
L’Italia e il mondo………………

Nella nota lettera, diretta al padre, nel luglio 1819, prima della tentata fuga, si paragonava a un gran genio.

“So che sarò stimato pazzo, come so ancora che tutti gli uomini grandi hanno avuto questo nome. – E perchè la carriera di quasi ogni uomo di gran genio è cominciata colla disperazione – così non mi sgomento che la mia cominci così”.

Egli portò all’estremo grado il peccato di ghiottornia del padre e dei fratelli. “Bramosissimo di dolci e di gelati”, dice il Ranieri (Sodalizio, pag. 44-45), “lasciata da parte ogni apprensione, persevera nei più incredibili eccessi: caffè, sciroppo di caffè, limonéa, sciroppo di limonéa; cioccolatte, gelati. Quanto ai gelati era un furore. La passione era tale da suscitar le risa dei vicini di tavolo, al caffè di Napoli. A Firenze ficcatosi in testa che la carne gli nuocesse, non voleva più mangiar che mele fritte, e alle tre dopo mezzanotte. Il 13 giugno che fu il penultimo della sua vita, divorò in poche ore un chilogrammo di confetti, e a desinare, insieme alla zuppa, un’abbondante granita” (Ranieri).

*

Il quadro di questa diagnosi è completato dal fatto del vagabondaggio.

Egli andò vagabondando continuamente, nel 1822 è a Roma; nel ’23 a Recanati; nel ’25 a Milano, e poi a Bologna; nel ’26 a Recanati: nel ’27 a Bologna, poi a Firenze e a Pisa; nel ’28 a Recanati; nel ’30 a Firenze; nel ’31 a Roma; nel ’32 di nuovo a Firenze; nel ’33 a Napoli. E rimase sconsolato sotto ogni clima. Non ebbe quiete neppure a Napoli, ove pareva dovesse viver libero da ogni preoccupazione per la salute e l’esistenza materiale: di là scriveva a De Sinner che desiderava finire i suoi giorni a Parigi.

Seguendo di anno in anno la vita di Leopardi, è facile stabilire l’assiduità con cui il cervello di lui fu soggiogato da un’idea. Tutta la sua produzione filosofica appare interamente germogliata sul germe di un’idea. Dai dolorosi sfoghi dell’autore si può desumere che la dominazione di quell’idea gli fu fonte di molta ambascia.

“L’altra cosa che mi fa infelice, è il pensiero. Io credo che voi sappiate, ma spero che non abbiate provato, in che modo il pensiero possa crucciare e martirizzar una persona che pensi alquanto diversamente dagli altri, quando l’ha in balia: voglio dire quando la persona non ha alcuno svago o distrazione, ma solamente lo studio, il quale, perchè fissa la mente e la ritiene immobile, più nuoce di quello che giovi. A me il pensiero ha dato e da continua mente tali martirii, per questo solo che m’ha avuto e m’ha interamente in balia, e che mi ha pregiudicato evidentemente, e mi ucciderà, se io prima non muterà condizione… Il pensiero è sempre stato il mio carnefice e sarà il mio distruttore se durerò in poter suo…” (Lettera, 28 agosto 1817, al Giordani).

Come se fossero fiori e frutti, le sue liriche sbocciavano nei tepori primaverili e autunnali o nelle temperature estive.

L’estro si scuoteva ad ogni primavera, saltando gli inverni quasi fossero stagioni morte, anche per la germinazione intellettuale.

Da uno studio diligentissimo del Patrizi sull’epoca in cui furon dettate le sue principali composizioni appare che di 48 composizioni, soltanto due furono scritte d’inverno, tutte l’altre in estate e primavera, e tutte le migliori nella prima giovinezza. Nei primi anni, la luce ed il calore erano mezzi dal poeta desideratissimi per lavorare. Progettando di recarsi a Roma si occupa di trovare una camera calda e luminosa, e ciò ci fa immaginare che egli scrivesse a preferenza di giorno. Ma abbiamo argomenti per supporre che, avanzando il poeta in età, il metodo del suo lavoro, intellettuale si invertisse. E la notte fosse più del giorno, propizia alle sue composizioni. Tale cambiamento può mettersi in relazione colla debilità del sistema nervoso del Leopardi, la quale andò progredendo cogli anni. L’attività corebrale di alcuni nevrastenici, non si desta se non dopo un accumulo di eccitazioni esterne, e talora è necessaria la vita di una intera giornata, per preparare quella somma di stimoli.

“Nello scrivere”, egli dice “non ho mai seguito altro che una ispirazione o frenesia, soppraggiungendo la quale, in due minuti io formava il disegno e la distribuzione di tutto il componimento. Fatto questo, io soglio sempre aspettare che mi torni un altro momento di vena, e tornandomi (il che ordinariamente non succede che al di là di qualche mese) mi pongo allora a comporre, ma con tanta lentezza che non mi è possibile terminare una poesia benchè brevissima in meno di due o tre settimane. Questo è il mio metodo, e se l’ispirazione non mi nasce da sé, più facilmente escirebbe acqua da un tronco, che un solo verso dal mio cervello”.

Questa che Leopardi chiamava una sua infelicità particolare, fu lo strazio di parecchi altri geni. E maravigliosa la rassomiglianza di questa descrizione del poeta del dolore, con quella che la Sand fa del musicista del dolore, il Chopin, la cui opera spontanea e miracolosa non cercata, non preveduta, cadente sul piano improvvisa ed intera, soggiaceva poi a mesi e settimane di revisione pei dettagli. Essa provocava nell’autore sforzi inauditi, durante i quali, chiuso in una stanza, passeggiava, piangeva e rompeva le penne. (Sand, Histoire de ma vie).

Mi pare che ve ne sia abbastanza per dimostrare quanto malato di mente fosse il grande poeta di Recanati. Nè si dica, come per molti altri si tenta, che tutti questi fenomeni erano l’effetto dell’esaurimento, dell’enorme dispendio di forze, che veramente doveva portare con sè un lavoro così poderoso.

Proprio, per dimostrare il contrario, il Patrizi ci rivela che il fratello Carlo, che aveva sortito un ingegno quasi pari al fratello, pieno di attitudini poetiche, anch’egli pessimista, aveva tutte le manie e le stranezze di Leopardi, come ne aveva perfino la calligrafia, oppure lungi dall’essersi esaurito in lavori, era di una poltroneria così singolare, da non escire per settimane intere dalla camera e dai vestiboli della casa.

E qui finisco, e basterà per dimostrare quante singolari rivelazioni sul nostro grande poeta sono chiuse nell’opera del Patrizi.

Torino. – Novembre 1895

Cesare Lombroso

1) L’opera sarà pubblicata nel 1896 in Torino dall’editore Bocca – nella biblioteca Antropologica – con figure e autografie del Leopardi e dei suoi fratelli.

2) Vedi l’Uomo di Genio, VI ed. 1895, Parte V.

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One thought on “Nuove osservazioni sulla vita di Leopardi (Cesare Lombroso)

  1. Lette tutte, alla fine Leopardi = medio studente universitario a Bologna
    (manca solo “era solito aspirare i fumi di talune erbe orientali”)

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