Una guerra combattuta sulle nuvole

La storia del Syrian Electronic Army, il primo “esercito digitale” mai comparso in un Paese arabo, è una di quelle sulle quali solitamente gli americani costruirebbero una serie televisiva (a meno che non intervengano ragioni di National Security): un gruppo di geni dell’informatica chiamato a modernizzare la Siria a metà degli anni ’90 ma che dopo il 2011 si è ritrovato in trincea. Una trincea neanche troppo virtuale.

Alcuni dei loro attacchi, come quello al sito dell’esercito statunitense, sono già entrati nella leggenda; tra i loro obiettivi si contano, oltre i siti e gli account social degli oppositori del regime, anche i portali di importanti testate, tra le quali “Repubblica” (ma non vogliamo farne degli eroi solo per questo, anche se è stato un gesto apprezzabile).

Restando in tema di serie americane, negli ultimi tempi l’immagine dei pirati informatici cinici e idealisti, capaci di destabilizzare un’intera nazione dalla loro cameretta, è stata valorizzata da produzioni come Homeland e House of Cards. È anche risaputo che il Pentagono, dopo aver tagliato di ventimila unità i Marines, ha quintuplicato i suoi battaglioni di hacker (arruolando persino ex criminali) allo scopo di destabilizzare i Paesi nemici attraverso la rete elettrica, le banche e le telecomunicazioni.

È un tipo di guerra ancora agli albori ma che già registra le sue battaglie campali, come quella del virus Stuxnet creato in collaborazione con Israele per sabotare il programma atomico iraniano (sembra che gli israeliani abbiano però rinunciato a sferrare attacchi cibernetici alla Siria per timore di ritorsioni da Cina e Russia) e, sui versanti opposti, le imprese appunto degli hacker cinesi (sicuramente i più coriacei del mondo), dei russi (che ultimamente hanno attaccato anche il sito della Difesa italiano) e, a quel che sembra, persino dei nordcoreani.

Bisogna tuttavia capire se la cyberwarfare meriti realmente l’appellativo di “guerra”: già in tanti utilizzano termini tratti dal gergo militare per definire quello che a livello legale è considerato ancora un crimine individuale (seppur “internazionale”); per esempio l’ex direttore della CIA Leon Panetta ha paventato il pericolo per gli Stati Uniti di una “cyber Pearl Harbor” (non porta molto bene agli americani evocare quell’attacco).

In generale poi si percepisce tutto quello che è legato all’informatica come qualcosa di “leggero”, evanescente, senza struttura, deterritorializzato ecc… A ben guardare però anche questa “guerra non convenzionale” qualora si verificasse dovrebbe appoggiarsi su infrastrutture di tutto rispetto, come le migliaia di chilometri di cavi sottomarini che fanno assomigliare il mondo a un gigantesco gomitolo. È difficile farsi un’idea dell’immensità dei data center, grandezze che si misurano in centinaia di ettari e tonnellate d’acciaio: il fatto che poi gli scienziati affermino che internet pesa “meno di una fragola” (un calcolo che include solo gli elettroni e lascia da parte tutto il resto) fa sospettare che il reale “peso” di internet non sia affatto percepito e che possa addirittura originare fenomeni di allucinazione collettiva. L’enfasi attuale sul “cloud computing” di certo non aiuta; come afferma il giornalista Andrew Blum:

«Se un cavo si rompe bisogna mandare una nave in mare, buttare un gancio in mare, tirarlo su, trovare l’altro capo, saldare i due pezzi e rimandarlo giù. È un processo fisicamente intenso. […] Quando vedete questi ragazzi lavorare su questo cavo con un seghetto, smettete di pensare a Internet come alla nuvola. Comincia a sembrare una cosa incredibilmente fisica. Quello che mi ha sorpreso è anche che, per quanto tutto si basi sulle tecnologie più sofisticate, e siano cose assolutamente nuove, il processo fisico stesso esiste da molto tempo e la cultura è sempre la stessa. Vedete gli operai locali. Vedete gli ingegneri inglesi che danno indicazioni sul fondo. E ancora più importante, i luoghi sono gli stessi. Questi cavi continuano a collegare i classici porti di città, luoghi come Lisbona, Mombasa, Mumbai, Singapore, New York».

Un traino per la posa dei cavi sul fondo marino (“Daily Mail”)

Gli unici finora a essersi accorti in modo diretto della complessità di tali processi sono stati le migliaia di arabi, asiatici e indiani che nel 2008 hanno subito le conseguenze della rottura di sei cavi sottomarini.

Questo lascia dunque pensare che se una guerra cibernetica dovrà essere combattuta, la gestione di essa non verrà affidata soltanto a degli sfigati chiusi nelle loro stanzette, a meno che queste stanzette non si trovino all’interno di un sottomarino e questi sfigati non indossino una divisa.

Tuttavia c’è forse da sperare che l’illusione di vivere tutti sopra una nuvola (invece che sulla mitica tartaruga cosmica) influenzi persino la nostra concezione della guerra: non più bombe, carrarmati e sottomarini, ma siti americani sabotati, database violati, dati sensibili rubati. Cloudywarfare.

(cavi sottomarini nel mondo)

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.