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“O capitano! Mio capitano!”: una scuola senza testa

Chi non ricorda questa scena? O capitano! Mio capitano… Suggestiva come tutto L’attimo fuggente (1989), il quale rappresenta sì un capolavoro del cinema americano, ma sfortunatamente anche la pietra tombale della pedagogia occidentale, avendo (in)direttamente contribuito alla devastazione di due generazioni di insegnanti. Se tuttavia fino a poco tempo fa il “metodo Keating” era rivolto solo ai figli dell’élite (in pratica  quelli che non hanno bisogno di lavorare per vivere), ora che il “miocapitanismo” è diventato un fenomeno di massa ci troviamo costretti a parlarne anche al costo di apparire cinici.

Nel caso italiano, la nefasta influenza è stata acuita oltre che da un Sessantotto infinito, da tutte le perversioni pedagogiche (dal donmilanismo in avanti) a cui l’istituzione è stata sottoposta. Non è una questione ideologica, sia chiaro: il problema principale è che questa cosa non funziona. E non si tenti di svicolare riducendo il punto al mero utilitarismo o efficientismo del “sapere la lezioncina a memoria”, poiché se l’espressione “scuola democratica” ha mai avuto un senso, esso ha sempre avuto a che fare più con i mezzi che con i fini. Rimuovere ogni barriera classista, così come includere nel percorso di studi qualsiasi alunno indipendentemente dalle sue caratteristiche sociali, fisiche, psicologiche, comportamentali eccetera, non doveva infatti comportare in alcun modo l’annichilimento dei contenuti dell’insegnamento.

Non prendiamoci in giro, dunque: le lezioni trasformate in insostenibili sciarade, dove a essere “premiati” non sono i migliori ma gli alunni più sfacciati, estroversi e, in ultima analisi, stronzetti (la piaggeria resta tale anche se esercitata con un professore “libertario”), sono la rappresentazione plastica di una rivoluzione culturale che ha raggiunto la fase terminale.

È necessario riportare qualche criterio di oggettività nell’insegnamento: in primo luogo cominciando a giudicare l’albero dai frutti, cioè smettendo di credere che il carisma del Robin Williams di turno (non vogliamo ironizzare in alcun modo sul suo exitus, anche se da una certa prospettiva appare rivelatore) rappresenti di per sé un valore aggiunto rispetto al vecchio grigio “professorino” che “odia il suo lavoro” e “dà un sacco di compiti” perché “è incapace di relazionarsi coi ragazzi”.

Let’s cut the bullshit, diremmo nelle vesti di uno spettatore americano: peraltro notiamo tra parentesi che le trovate del professor Keating alla fine portano al suicidio di uno degli studenti, un passaggio nella trama che potrebbe rappresentare un ripensamento inconscio o l’emergere di un senso di colpa (nonostante qualcuno potrebbe giustamente ricordarci che la morte di un ragazzino –preferibilmente auto-inflitta– è la cifra stilistica di Peter Weir).

Per rimanere in tema di americanate e americanismi, osserviamo che nella cultura popolare d’oltreoceano Dead Poets Society (così il titolo originale del film) è stato ridicolizzato in tutti i modi. Per esempio, troviamo un riferimento negli immortali Simpson (la presentazione del maestro “originale”, a partire da 3:20, viene commentata dal gruppo di esaminatori in modo lapidario: «Dead Poets Society has destroyed a generation of educators»),

e nei Griffin (il personaggio del cane Brain viene preso sul serio dagli studenti di una classe “svantaggiata” quando prefigura loro un destino da manovale, cameriera di motel o prostituta):

La parodia più crudele è però quella del Saturday Night Live (risalente al maggio 2016), trasmissione comica liberal che, pur avendo avuto lo stesso Williams tra i suoi protagonisti, non si è risparmiata nel dissacrare il classico epilogo del film.

Sottolineiamo giusto un paio di cose; in primis l’esilarante resa della famigerata introduzione (“Understanding Poetry”) del povero J. Evans Pritchard, Ph.D, che gli sceneggiatori hanno esagerato all’estremo evidentemente per canzonare la rigida dicotomia tra “tradizione” e “innovazione” su cui si basa la pellicola:

«La poesia non deve essere divertente, anzi deve essere opprimente e odiata da chi la legge. Le poesie sono cose vecchie di cent’anni e sono state scritte da un mucchio di tizi morti per punire gli studenti. Le arti in generale sono roba per femminucce e omosessuali. Quando si legge una poesia non si dovrebbero mai provare emozioni. Per riassumere: la poesia fa schifo».

Infine, il messaggio implicito dell’orripilante conclusione splatstick (gli americani capiscono le lezioni solo se presentate in un lago di sangue e risate): non tutte le regole sono stupide e vanno violate, perché in fondo la maggior parte di esse sono ispirate dal buon senso. “Non arrampicarsi sui banchi” è una di queste, tanto che ad onta di tutto le maestre continuano a ripeterlo sin dalla prima elementare: il ventilatore a pale, in tal caso, rappresenta solo uno dei tanti pericoli della vita dai quali una istruzione “all’avanguardia” impedisce di difendersi.

Considerando l’inaspettata popolarità che lo sketch ha avuto, si potrebbe quasi dire che d’ora in avanti lo spettatore americano medio non potrà più riguardare il film senza pensare alla testa del giovane comico che balza via in un crescendo di spappolamenti: se gli yankee l’hanno però risolta a livello di spettacolo, sarebbe invece preferibile per gli italiani mettere in atto un ripensamento più discreto, mirato e capillare.

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