Uno studio del politologo Rolfe Daus Peterson, Effects of physical attractiveness on political beliefs (“Gli effetti dell’attrazione fisica sulle opinioni politiche”), pubblicato sulla rivista dell’Università di Cambridge “Politics and the Life Sciences” nel 2017 (e firmato col collega americano Carl L. Palmer dell’Università dell’Illinois), ha ottenuto un discreto successo nell’anglosfera per aver attestato la maggiore avvenenza del bel maschione “conservatore” rispetto all’effeminato “progressista”.
È interessare osservare come l’Autore tra le righe paia provare un qualche sconforto al cospetto di questa tendenza femminile al “maschio conservatore e repubblicano”, ma per onestà intellettuale è costretto ad attestarla: per esempio, anche nel momento in cui imbastisce discorsi piuttosto banali sull’ideologia, illuminandoci con perle del tipo “i bambini che provengono da famiglie più autoritarie tendono a condividere ideologie più conservatrici“, al contempo non può fare a meno di individuare il profondo legame fra attrattività fisica, orientamento politico e psicologia individuale.
La “morale” della ricerca rimane ovviamente vaga, ma è difficile non sintetizzarla in questo modo: sussiste un collegamento tra l’avvenenza di un uomo e la sua “determinatezza” o “consapevolezza di sé” (l’Autore scomoda il concetto di self-efficacy, ma la sostanza è quella), il quale conduce la maggior parte dei maschi attraenti verso ideologie di “successo”, che non si incarnano necessariamente nei partiti che hanno vinto una tornata elettorale, semmai esprimono questa sorta di “attrattività” a livello politico (come a dire che un brutto che salga sul proverbiale “carro dei vincitori” rimanga comunque un perdente, o che le più minoritarie organizzazioni di destra siano intrinsecamente portate a considerare il “successo” come un fattore positivo).
Come osserva R.D. Peterson:
«Gli individui più attraenti sono trattati in maniera diversa rispetto agli individui meno attraenti, ricevono maggiore attenzione durante le interazioni sociali e hanno una spiccata propensione al successo nella vita. Essere trattati come persone di successo porta gli individui a interiorizzare questi sentimenti e a comportarsi come se fossero tali. Pertanto, costoro sono più propensi a credere di avere una maggiore capacità di influenzare il mondo che li circonda e considerare le loro decisioni come particolarmente importanti».
Lo studio è considerato autorevole per il semplice motivo che analizza una quantità di fonti non indifferente (è anche notevole l’apporto dei dati provenienti da oltreoceano, che sin dagli anni ’70 del secolo scorso si basavano su un approccio più che pragmatico nel valutare il legame tra bellezza e idee politiche), giungendo alla conclusione che l’aspetto fisico, la physical appearance, è un meccanismo di socializzazione indispensabile per comprendere le interazioni umane.
Nonostante, come dicevo, le conclusioni non possano essere nette nella misura in cui sono abbastanza “disdicevoli”, l’Autore non perde comunque l’occasione di offrire un’interpretazione politica dei dati, sostenendo, tra le altre cose, che chi è avvantaggiato dall’aspetto fisico, vivendo una vita in easy mode (nello studio si usano letteralmente queste espressioni) rispetto a individui meno attraenti, è naturaliter portato a ignorare i problemi degli “svantaggiati”, dunque sarebbe meno favorevole alle politiche di welfare, alla difesa dei diritti delle minoranze nonché, più in generale, a qualsiasi “interventismo” governativo.
Addirittura Peterson, alla luce della “scoperta dell’acqua calda”, giunge a sollevare dubbi sull’equità della partecipazione politica, poiché coloro che non sono considerati attraenti potrebbero essere meno propensi a sentirsi autorizzati a una qualche forma di “militanza”:
«Gli individui più attraenti sono soggettivamente percepiti come più intelligenti e politicamente competenti, anche dopo l’attestazione di un livello oggettivamente basso di consapevolezza politica. Potremmo sollevare ulteriori preoccupazioni sulla qualità della partecipazione politica se gli individui attraenti sono più propensi a persuadere gli altri. […] Coloro che non sono avvantaggiati da un bell’aspetto saranno meno propensi a sentirsi autorizzati a partecipare alla politica, a cercare di lottare per le proprie istanze o a esercitare i propri diritti politici».
Al di là delle intenzioni di Peterson (ho sempre citato solo lui perché il coautore perché in verità si limita ad apportare fonti americane), lo studio è importante perché spinge a considerare l’attrattività fisica come fattore essenziale delle interazioni politiche.
E la prospettiva dell’Autore, per quanto orientata a un blando progressismo (il suo obiettivo è dichiaratamente quello di «far luce sui pregiudizi producono disuguaglianze nell’attivismo politico e la propensione di taluni individui a sentirsi autorizzati a fare politica»), è suscettibile di ispirare conclusioni ben poco corrette (sempre politicamente, s’intende, visto che siamo in tema) e mettere in discussione il presunto “idealismo” di talune ideologie odierne (dal femminismo a scendere), che invece sembrano trasudare da tutti i pori la bruttezza di chi le sostiene, come d’altro canto rafforzare il “vittimismo militante” di quegli uomini che, ad onta delle lamentele sulla “partecipazione”, a differenza di donne, gay, transessuali, disabili, poveri eccetera, non trovano una corrispondente espressione “maschilista” a livello socio-politico.
D’altro canto, si può osservare, in conclusione, come sullo studio incomba il “convitato di pietra” dei meccanismi con cui le donne scelgono il proprio partner. È facile discutere del “successo” di un bell’uomo al bar o alla sede di partito, mentre è più compromettente puntare i riflettori su chi ha consolidato realmente la self-efficacy di certi individui, e non solo con i voti e gli applausi…
citando l’articolo inglese:
H2a:
More attractive individuals will be more likely to self-identify as conservative.
H2b:
More attractive individuals will be more likely to identify with the Republican Party.
Questo spiega perché le donne di destra sono generalmente più belle di quelle di sinistra?
Un po’ come le femministe radicali di ultra sinistra socialiste che tendono a essere “diversamente attraenti” rispetto alle femministe liberali.
Ho letto l’articolo integrale. È carta straccia. Metodologia ridicola. Gli autori sono partiti con l’idea (e la preoccupazione) che la tesi deve essere per forza vera. Tesi che poi è un banale luogo comune conosciuto e sfruttato da secoli e secoli. Gli autori riconoscono che il loro limite principale è l’estrema difficoltà nel misurare obiettivamente il parametro fondamentale su cui si basa la tesi. La maggior parte degli argomenti si basa su studi a carattere generale che gli autori devono forzare per arrivare alla (preoccupante, dal loro punto di vista) conclusione, senza peraltro aggiungere nulla di solido e significativo. Il lavoro rientra a pieno titolo nella massa sterminata di studi di psicologia del comportamento che hanno lo stesso rigore scientifico della fusione fredda. Tutta la ricerca psicologica (e medica) contemporanea è caratterizzata da scarsa riproducibilità https://www.nature.com/articles/nature.2015.18248 e dalla letteratura scientifica puoi letteralmente pescare articoli che dicono una cosa e il suo contrario, come le analisi di marketing. Abusare di questa robaccia come i geovisti abusano delle citazioni bibliche è roba da incelli americani (o cerebralmente tali), ex “fedora athiest” semi-analfabeti e cultori di “i believe in science”, incapaci a valutare la validità della merda accademica e scelta solo per confermare ciò che vogliono.
È da froci dare importanza agli scienziologi che spendono fondi pubblici per confermare ciò che l’intuito e l’esperienza millenaria hanno già dimostrato.
Vabbè, queste osservazioni sono abbastanza scontate (comunque le condivido), ma non mi sento attaccato perché tutto sommato io utilizzo varie fonti, come le esperienze personali, la tradizione, i sogni, le visioni e i meme