La coincidenza tra la visita ufficiale di J.D. Vance in Vaticano e il decesso di Bergoglio ha dato modo di confermare le voci sulla carica jettatoria del vice di Trump, che gli americani identificano neutralmente come aura non possedendo un sistema di catalogazione scaramantica rodato nei millenni come il nostro. Bisogna tuttavia osservare da una parte che il buon Francesco (Dio lo abbia -finalmente- in gloria) aveva già ricevuto qualche personalità di certo poco benaugurante come Carlo III, e dall’altra che tecnicamente non sarebbe Vance l’ultima autorità politica incontrata dal Pontefice prima di morire, avendo egli poco dopo accolto anche il presidente croato Andrej Plenković.
Ad ogni modo, sembra quasi per l’ironia della sorte (o per un’astuzia della ragione?) che proprio Vance e Bergoglio abbiano avuto pochi mesi prima del loro ultimo incontro (in senso letterale) un dibattito obiettivamente interessante sul modo in cui un cristiano dovrebbe approcciarsi alla questione dell’immigrazione: il vicepresidente statunitense, neoconvertito al cattolicesimo da poco (circa sei anni), il 30 gennaio 2025 in un’intervista a Fox News aveva infatti citato il concetto di ordo amoris (riprendendolo da Sant’Agostino) come teorizzazione della possibilità di una società cristiana armonica ove ognuno dovrebbe amare prima la propria famiglia, poi i vicini di casa, poi la propria comunità, poi la nazione e infine, al posto più basso della gerarchia della carità, considerare il “resto del mondo”.
Questa lezione di teologia susciterebbe facili battute verso un politico che vorrebbe insegnare il “mestiere” a un pontefice, se non fosse che purtroppo Papa Bergoglio si è più volte prestato a una politicizzazione indebita su tematiche che gli stavano a cuore: non a caso, la sua risposta in forma di lettera ai Vescovi degli Stati Uniti, è stata uno sgarbo istituzionale non da poco, specialmente nel momento in cui ha voluto correggere il vice di Trump ricordandogli che
«Il vero ordo amoris che occorre promuovere è quello che scopriamo meditando costantemente la parabola del “Buon Samaritano” (cfr. Lc 10, 25-37), ovvero meditando sull’amore che costruisce una fratellanza aperta a tutti, senza eccezioni».
Si evocava la sorte, o la Provvidenza, perché tale presa di posizione, lungi dal rappresentare uno smacco per il politicante di destra (sempre visto come praticante un cristianesimo di facciata), pone la Chiesa in una penosissima posizione, nel momento in cui la voce del suo Capo può godere di un’autorevolezza nei confronti del potere mondano acquisita solo tramite un secolare percorso di istituzionalizzazione, che l’ha portata a edificare il proprio impero, non solo spirituale, anche assumendosi il compito di occuparsi degli xenoi al posto sia del singolo fedele sia dello Stato stesso.
È chiaro che un’impostazione così “anti-istituzionale” porta entità che hanno costruito i loro rapporti di -almeno apparente- cordialità dopo lunghissime ere di conflitto, a “rispondersi per le rime”: ma la Chiesa non può per questo gestire un potere spirituale, che essa obiettivamente detiene, al pari di uno politico o addirittura territoriale.
Tanto più che, come ricordava Ivan Illich in vari luoghi, è stata proprio la Chiesa “costantiniana” a istituzionalizzare l’ospitalità tradizionale (generando peraltro come conseguenza non voluta la modernità), sin dai tempi dei primi xenodochi (le “case per gli stranieri”) che tanto preoccuparono San Giovanni Crisostomo nel momento in cui essi avrebbero potuto far perdere l’usanza di tenere sempre pronti un pezzo di pane e un letto in ogni casa cristiana, nel caso in cui il Signore avesse bussato alla porta di quest’ultima in veste di un vagabondo straniero (in ciò Illich, nella sua paranoia contro lo Stato, vede in nuce la nascita della “società dei servizi” e considera da tale prospettiva il welfare stesso come perversione della carità cristiana).
Ora, in un contesto del genere non è poi così problematico che un Papa possa comprendere le ragioni dei governanti temporali, particolarmente nel momento in cui essi devono prendere atto che nessun “Buon Samaritano” (persino ecclesiastico, milionario o centrosocialaro, categorie che negli anni bergogliani hanno riscoperto una “fede comune”) potrebbe assumersi personalmente la responsabilità di accogliere anche solo uno straniero appena giunto nella sua patria, visto che qualsiasi atto caritatevole deve necessariamente passare per le maglie della legislazione (persino in Vaticano).
Mi sembra assurdo che l’intero apparato romano abbia consentito al proprio “Vescovo” di comportarsi come se non fosse tale, posto che qualsiasi “francescanesimo” si è sempre costituito come pendant di un’istituzione forte e orientata alla Tradizione. Promuovendo un’apertura quasi incondizionata verso lo “straniero”, il Papa si è poi posto in contrasto con quella che avrebbe dovuto essere il suo ruolo così come si è delineato in base a dinamiche puramente interne: è insegnamento della Chiesa, infatti, che sebbene la carità abbia come oggetto ultimo il bene soprannaturale e quindi debba abbracciare ogni essere umano, l’atto concreto della beneficenza deve seguire un ordine gerarchico.
Il Pontefice può ovviamente porsi come “Padre dell’Umanità” intera, ma in base a questa idea di carità non potrebbe di certo (per riprendere esempi tomistici) obbligare un genitore a lasciare a digiuno il proprio figlio per sfamarne un altro. Questa non è di certo carità cristiana, e forse nemmeno filantropia pagana, ma un egalitarismo sentimentale che ha prodotte nuove ingiustizie nelle società occidentale attraverso le più buone intenzioni (le quali da sempre lastricano vie che portano in una risaputa direzione).