Ortoressia: Mangiate Sano, Mangiate Italiano

L’ortoressia (dal greco orthos-corretto- e orexis -appetito-), definita come «una forma di attenzione abnorme alle regole alimentari, alla scelta del cibo e alle sue caratteristiche» (Wikipedia), è la malattia che il self-hating Italian diagnostica a quei connazionali che vanno all’estero per “mangiare italiano”.

Del resto non è colpa degli “italioti” se oltre i confini nazionali la ristorazione sembra avere a che fare più con la produzione di concimi che non la gastronomia. La prova lampante è nel modo in cui gli altri popoli, incapaci di abbinare quella cosa che chiamano cibo con la giusta bevanda, affogano il tutto in litri di alcol.

Una tendenza che nei popoli nordici è presente da secoli, a quanto scrive lo storico olandese Slicher van Bath (The agrarian history of Western Europe, AD 500–1850, 1960):

«In Svezia il consumo medio di birra nel XVI era quaranta volte superiore a quello attuale, perché il sale e le spezie per rendere il cibo commestibile e conservarlo erano usate in quantità enormi».

I metodi di conservazione e preparazione delle vivande devono esser evidentemente rimasti gli stessi, anche se oggi come alibi vale soprattutto il freddo (che in effetti non si può combattere in molti modi, ma sarà pacifico per i sempre più numerosi maomettani che si installano in Scandinavia?).

All’estero, quindi, non sanno mangiare e di conseguenza non sanno bere. Lo conferma la testimonianza del musicista britannico Robert Wyatt (intervista a “Musiche”, primavera 1996):

«Una delle cose che ha tentato di insegnarmi [mia moglie] è “come bere”, perché io, d’abitudine, bevevo come i nordeuropei (che lo fanno solo per ubriacarsi) e lei mi ha detto: “Guarda come bevono gli italiani: bevono durante i pasti e poi, per lo più, smettono”. Così, quando siamo venuti in Italia, ha avuto occasione di dimostrarmi come vivere bene restando civili. E dunque: grazie Italia […]».

Quanto è provinciale, al confronto, un Ceronetti che piagnucola perché «eccetto un certo tipo di lambrusco fermo, privo di solfiti, presente in pochi negozi di prodotti biologici, da undici gradi, un vino [italiano] realmente bevibile non lo conosco» (Il più crudele dei mesi, “Corriere”, 4 agosto 2013).

Se costui avesse assistito a certe scenate di compagni est-europei pronti ad accapigliarsi per una bottiglia di Freschello come fosse ambrosia, sarebbe rimasto sconvolto. Per non dire del saporaccio di quei vinelli sudamericani che polacchi o lituani pagano un occhio della testa: dov’è l’Italia con i suoi “vini imbevibili”? Si perde un mercato per l’eterno complesso di inferiorità. Per altro noi italiani conosciamo il trucco per far diventare buono un vino cattivo: lo si allunga con l’acqua, come ci viene insegnato fin da piccoli. A furia di annacquarlo pure quel barbera frizzante che toglie la voglia di vivere, diventa un cocktail sbarazzino adatto per tutte le occasioni.

È vero che la nozione di “gusto” è una costruzione storica e che ogni criterio obiettivo di classificazione si imbatte sempre nel de gustibus: ma proprio per questo bisogna riconoscere che l’ossessione italiana per la buona cucina dipende anche dalle modalità con cui si è configurato negli ultimi decenni lo sviluppo industriale nel nostro Paese.

Senza troppi giri di parole: se le altre potenze commerciali hanno imposto all’Italia di diventare una nazione di cioccolatai e pizzaioli, gli italiani nel fare di necessità virtù hanno ancora acquisito una posizione di predominio a livello mondiale, appunto nell’ambito dell’industria alimentare. Non dovrebbe essere sconvolgente il fatto che alcuni italiani facciano del “mangiare bene” la loro bandiera: è una delle poche cose che ci hanno lasciato (e l’abbiamo trasformato in oro).

Poi, è ovvio, c’è chi preferirà sempre i pierogi ai riavoli, il fish and chips alla cotoletta e qualsiasi bevanda esotica a un Brunello: ma quello è solo il proverbiale Selbsthass italiota che conosciamo, che sfocia regolarmente nell’eteroressia (dai dizionari medici ottocenteschi: «appetito strano, depravato»).

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