Pantani doveva morire

Oggi è San Valentino, ma è anche l’ennesimo anniversario della morte di Pantani. No, purtroppo non sono un “pantanologo” (ai tempi ero troppo giovane per capire le cose importanti della vita), ma sono reduce dalla lettura di un libello pubblicato giusto qualche mese fa, Il caso Pantani di Luca Steffenoni (Chiarelettere, 2017). Il sottotitolo è “Doveva morire” e mi sembra un’espressione molto azzeccata: il Pirata, infatti, è stato distrutto prima come sportivo e poi  –letteralmente– come uomo. Una dimostrazione è proprio il fatto che se non avessi letto di recente questo libro, non mi sarei neppure ricordato che la sua tragica fine nella stanza di un albergo riminese (che peraltro non esiste più) avvenne proprio un 14 febbraio di 14 anni fa. Si percepisce quindi una sorta di accanimento post mortem, una damnatio memoriae dalla quale è fortunatamente immune Cesenatico, che ancora gli tributa gli onori dovuti.

Veniamo al volume: è un testo molto didascalico, con la particolarità però di delineare non solo una biografia minima del campione, ma anche una sintesi di tutte le ipotesi (persino quelle più dietrologiche) su chi avesse interesse a impedire per sempre a Pantani e di pedalare e di parlare.

Si parte dalla pista delle scommesse camorristiche, quella più corroborata e per certi versi anche più “tranquilizzante” (in questo Paese la mafiasi porta su tutto); si passa poi a un’avversione sottile da parte di una certa cupola politico-finanziaria, che in effetti potrebbe spiegare il senso dei continui attacchi da parte del più importante giornale sportivo italiano. In questo caso l’autore non risparmia accuse a chicchessia e utilizza toni molto duri, specialmente contro i suoi “colleghi”. Per esempio, parlando della rivalità con Lance Armstrong, scrive:

«La stampa, prima fra tutte quella italiana, non perderà occasione per paragonare metaforicamente il caschetto giallo [di Armstrong], simbolo di pulizia prima che di sicurezza, alla patetica bandana del vecchi Pirata, caduto dalla tolda del suo vascello fantasma»

E proprio a proposito di Armstrong, Steffenoni non si lascia ovviamente sfuggire l’occasione per ricordare le anomalie che, prima ancora dello scandalo doping, caratterizzarono la carriera del ciclista americano:

«Per [farlo] vincere si era messo in mezzo pure Bill Clinton, molto attento al ritorno elettorale garantito dall’ecologia e democratica due ruote, che aveva spinto per la costituzione di una squadra filogovernativa, la Us Postal. […] Qualche voce ispirata dalla cultura del sospetto ha parlato di un coinvolgimento delle istituzioni sportive americane nella vicenda di Campiglio. Illazioni vaghe e probabilmente fantasiose, nelle quali l’unica certezza è che la stessa di Lance inizia a brillare proprio quando quella del Pirata si offusca» (pp. 65-67).

Il libro, come prevedibile, è stato da taluni tacciato di “complottismo”, perché è innegabile che in molti passaggi si ammicchi al feuilleton: tuttavia bisogna ammettere che in questa vicenda i “misteri” sono così profondi che su ognuno di essi si potrebbe imbastire un romanzo. Potremmo chiamare in causa, per esempio, il “supertestimone” Wim Jeremiasse, l’ispettore olandese spuntato nell’inchiesta come un “fantasma” (poiché morto nel 2000 in uno stranissimo incidente) che avrebbe potuto dire qualcosa sulle incredibili manipolazioni occorse durante le famigerate analisi di Campiglio. Se il quadro è davvero questo, allora è necessario altresì riconoscere all’Autore di non essersi addentrato poi così “dietro” nella dietrologia (niente doppi sensi), se ha liquidato la “questione Armstrong” in tre-quattro paginette.

Col senno di poi, invece, credo ci sia ancora molto da scrivere: persino Leo Turrini, nel suo Il Pirata e il Cowboy, pur non lasciando alcuno spazio al complotto, tra le righe riesce comunque a dire qualcosa in più di Steffenoni. Non si tratta di una critica: però sulla beffa (oltre al danno) del role reversal tra il campione pulito e lo sportivo più marcio del mondo (e anche “mafioso”, considerando i metodi con cui si garantiva l’omertà di centinaia di individui), qualche giornalista italiano dovrebbe avere il coraggio di andare più a fondo.

Al di là delle polemiche, veniamo alla parte migliore del volume, quella dedicata alle ultime ore del Pirata: anche se l’Autore non viene aggiunge praticamente nulla di nuovo a quanto già scritto per esempio da Philippe Brunel ne Gli ultimi giorni di Marco Pantani (2008) o Davide De Zan in Pantani è tornato (2014), queste pagine ricostruiscono l’accaduto col ritmo di un bel romanzo giallo e valgono quasi l’intero libro. Si racconta, del resto, uno dei “suicidi” più anomali del mondo: sette grammi di cocaina «divorati in un impeto pantagruelico». I “pantanologi” sanno perfettamente di cosa si parla: dell’impossibilità di ingerire una sostanza amarissima, a meno che “qualcuno” (magari uno di quelli che “infastidiva” Pantani alle 10.55 del 14 febbraio 2004, come ricorda l’addetta alle reception che ricevette le sue lamentele per via telefonica?), non l’abbia sciolta nell’acqua o infilata in una mollica di pane e gliel’abbia fatta mandar giù a forza. Anche su questo, c’è ancora molto da scrivere…

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