«[…] La guerra di religione è la forma primordiale della guerra. Le guerre politiche, fra nazioni, sono una breve eccezione nella storia, durata meno di tre secoli, dalla pace di Vestfalia allo scoppio della Prima guerra mondiale. Però dire oggi guerra di religione significa dire anche da quale religione è promossa – e questo obbligherebbe a usare la parola “islamico” (intendendo tutto ciò che si appella ad Allah). E oggi non c’è parola che la Chiesa e i governi evitino con maggiore cura. Davanti a una persecuzione in atto di cristiani in quanto cristiani, che va da larghe zone dell’Africa all’intero Medio Oriente, non basta che il Papa si dichiari “vicino” a chi soffre. Ci si aspetterebbe che nominasse chi fa soffrire. Così come, durante la Seconda guerra mondiale, non si poteva dire di essere “vicini” agli Ebrei perseguitati senza dire che erano i nazisti a perseguitarli. Spetta a ogni Papa proteggere tutti i cristiani, anche i venticinque copti che sono stati uccisi mentre assistevano alla Messa al Cairo. Certo, il Papa dispone solo della parola, ma è una parola potente. E allora il Papa non potrebbe evitare la parola proibita: “islamico”. E non potrebbe neppure più rifugiarsi nella deprecazione del “Dio denaro”. Certamente l’Isis e Al Qaida non sono una questione di poveri incattiviti che si rivoltano contro ricchi sopraffattori occidentali.Non meno pavidi sono stati, sino a oggi, i governi europei e occidentali in genere. Ma la posizione della Chiesa spicca maggiormente, perché l’odio della Croce torna costantemente nei proclami dei terroristi. Che fare, allora? Rispondere combattendo a una guerra dichiarata, come sempre è avvenuto nella storia. E innanzitutto studiare il nemico, non temere di osservare le sue parole e i suoi argomenti, in tutti i dettagli. E non parlare più di un “sedicente” Stato Islamico, così come anni fa si parlava delle “sedicenti” Brigate rosse, facendo intendere che dietro c’era qualcos’altro. Il punto più duro da capire è appunto questo: ciò che i terroristi dicono di essere. Che cosa essi poi siano, lo mostrano i fatti».
Ebbene sì, Roberto Calasso è un eroe e noi ci siamo sbagliati. Certo, non è il caso di eleggerlo Papa (ripeto: ché di questi tempi…), però riconosciamogli almeno di essere una brava persona, nonostante quelle brutte abitudini di cui parlano le malelingue. Alla fine avrebbe potuto salvare le apparenze, ricordando che anche l’islam ha una sua dimensione adelphicamente “buona” in alcune correnti eterodosse (basta leggersi quel poco di Corbin che egli stesso ha fatto pubblicare). Invece il Nostro non ha voluto smussare i contorni della sua fantomatica “guerra di religione” e l’ha proposta nei termini più perentori possibili. È una forzatura che chiunque potrebbe facilmente confutare, ma l’audacia della tesi rimane ammirabile: è anche vero che lo sarebbe di più se Calasso non fosse il “Venerato Maestro” che conosciamo, e se non risultasse inattaccabile anche ai vecchi boiari dell’intellighenzia nostrana.
In ogni caso avrebbe potuto pure non scriver nulla: invece ha deciso di farlo, liberamente, come Dio che crea il mondo dal nulla. E allora vedi che lo gnosticismo è una balla? Ma no, risponderebbe Calasso (ormai l’ho totalmente interiorizzato, *ahia*), io ho scritto questa spataffiata anti-islam perché obbligato dalle circostanze, che sono appunto quelle in cui i terroristi hanno «l’occasione di uccidere insieme cristiani e pagani».
Quindi, “Grande Calasso!”, lo ripeto ancora una volta (facendo opportuni gesti apotropaici).
Calasso uno di noi? Camerata Calasso, presente? Beh, questo giochino lui lo fa da decenni, e la “destra” ci casca regolarmente perché incastrata in un perenne complesso di inferiorità. Però stavolta c’è qualcosa di diverso, lo si percepisce sin dalla prima lettura: Calasso, come ho detto, sta usando gli strumenti culturali che gli appartengono (cita pure l’amatissimo Schreber), per proclamare la più semplice delle verità, cioè che il bene e il male esistono.
Questo è uno dei concetti più anti-adelphiani che esistono, tanto che ormai pure la Chiesa cattolica ha smesso di crederci: ironia della sorte, ora l’unico rimasto a difenderlo è proprio Roberto Calasso. Lui, che si è svestito dei panni del professor Guidobaldo Maria Riccardelli, per indossare umilmente quelli di Fantozzi notre prochain (assestando indirettamente un colossale calcio in culo al vecchio Sacher-Masoch). Altro che la “Chiesa del silenzio” proclamata dal patetico Enzo Bianchi, al quale Calasso qualche anno fa rivolse un altrettanto patetico encomio. Qui si invita finalmente a dare un nome al male, al nemico, all’orda maledetta: non esiste esorcismo più forte di questo.
Dopo decenni di esoterismo per le masse, tuttavia, l’unica consolazione per il buon Calasso rimane quella di aver dato una tinta “magica” al processo di secolarizzazione, anche se dal suo intervento trapela una qualche inquietudine sui destini di questa società “cristiano-pagana”. È come se l’adelphico patrono non si sentisse più in partibus infidelium, ma riconoscesse nella compagine in cui ci troviamo a vivere non di certo il Génie du Christianisme (né un Génie du paganisme), ma almeno il genius saeculi.
È un dato importante perché una risposta “adelphica” con tutti i crismi avrebbe dovuto evocare il taoistico Wú wéi, il principio del “non agire” che finora è stata appunto l’unica reazione di politici, media, intellettuali e società civile (come lo stesso Calasso rimarca più volte nel suo intervento): non è così deliziosamente amorale rifiutarsi di giudicare anche il peggiore degli assassini in nome dell’insensatezza del vivere, oppure attendere di essere perforati dalle pallottole mentre si compiono i gesti quotidiani più banali per puro amor fati?
In fondo è anche questo che ci hanno insegnato gli Adelphi: tutta la creazione deve ritornare al nulla, in un modo o nell’altro. Il terrorismo sembrava la formula perfetta di tale apocalisse minimale e nichilistica, poiché creava un’imbarazzante ambiguità tra vittime e carnefici, lasciando alle prime il tempo di colpevolizzarsi fino ad assumersi l’intera responsabilità dei massacri.
Dopo gli elogi, veniamo alle note dolenti: visto che nessuno farà le pulci al “venerabile”, ci permettiamo di farlo noi (tanto qui non legge nessuno).
In primo luogo, Calasso ha un’idea di “paganesimo” troppo essenzialista, cioè pensa che sia ancora lecito definire il Natale una “festa pagana”. In realtà il cristianesimo si è impossessato del genio pagano e per secoli si è dimostrato di esserne degno erede (o perlomeno degno custode): solo in questa sorta di “decadenza autoimposta” noi iniziamo a pensarci pagani, a utilizzare anche il termine in senso autolesionistico (come se a Cesare non spettasse nulla). Ma quali “pagani”: chi festeggia la nascita di Cristo andando per negozi è cristiano, smettiamola con moralismi e balle varie. Tutto quello che esce dal mos maiorum è già di per sé “religiosità seconda”, non è nulla di “puro” né “originario”.
Infatti, un altro punctum dolens della retorica calassiana, direttamente collegato all’ipostatizzazione del paganesimo, è l’oblio dei “pagani d’Oriente”, che non sono quelli che festeggiano il Capodanno in discoteca. Non parlo solamente delle vittime “pagane” dell’Isis come gli yazidi (Calasso avrebbe potuto citarli per evitare l’accusa di “islamofobia”, che francamente gli sarebbe spettata se fosse stato chiunque altro), ma anche dei mandei, che lo storico Edmondo Lupieri definì in un suo saggio “gli ultimi gnostici” (!). Vittime di Saddam, vittime dei fondamentalisti, e vittime dei bombardamenti occidentali. Anche le urla di questi ultimi eredi dello gnosticismo tardoantico si sono spente inascoltate…