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Parla con me (degli immigrati)

È da qualche anno a questa parte che vengo coinvolto sempre più spesso in un siparietto del genere: un conoscente alla lontana, di solito imbevuto di ideali vagamente progressisti (e forse anche di alcol), mi prende in disparte e mi fa il tipico discorso che inizia con “Non sono razzista, ma…”

Capita praticamente ovunque: al bar e all’edicola, ai matrimoni e ai battesimi, al mercato e in biblioteca. Credo lo facciano soprattutto perché, pur considerandomi sotto sotto un “nazista”, non si sentono moralmente degradati a rivolgermi la parola (almeno in camera caritatis).

Il mio atteggiamento varia a seconda dell’interlocutore: se si tratta di qualcuno che ha avuto uno spiacevole alterco coi fratelli migranti, allora cerco di essere indulgente e comprensivo, perché la sua è una chiara reazione al trauma, quindi è giusto offrire una spalla xenofoba su cui piangere.

Se invece si tratta di un “novizio”, uno che ha appena iniziato ad assaporare le gioie dell’intolleranza con tutta la naïveté del caso, allora gli concedo il minimo di condiscendenza possibile, per evitare che si esalti oltre il dovuto.

Quando però mi imbatto in una persona che in passato non ha perso un’occasione per rompermi l’anima sull’argomento, allora non ho nessuna pietà: mi calo immediatamente nel ruolo dell’avvocato del diavolo (se non addirittura del coccolanegri e dell’hippy balordo), utilizzando gli argomenti che costui negli anni ruggenti ha sfruttato fino all’estremo, avete presente quei giudizi apodittici in cui tutti sono tutto e tutti hanno diritto a tutto: “Siamo stati tutti immigrati”, “Siamo tutti fratelli”, “La terra è di tutti”

Non è cattiveria: sono severo ma giusto. Del resto ho il sospetto che quelli dell’ultima categoria vogliano solo sgravarsi i peccatucci dalla coscienza e poi tornare a scrivere panzane sui social per sentirsi più intelligenti di Salvini. A me però non importa di “convertirli” a chissà quale verità, anche perché sono certo che alle prossime elezioni voteranno il partito che hanno sempre votato, quello che “ci governa bene” (questa cosa una volta la dicevano solo gli emiliani, poi quando gli emiliani sono arrivati al governo hanno cominciato a ripeterla tutti, tranne gli emiliani).

Mi preoccupa solo questa dissociazione psico-politica, che nel breve impedirà nuovamente di trovare una soluzione razionale al problema, finché sul lungo periodo la corda si spezzerà e arriveranno i veri barbari (non so se “verticali” o “sognanti”): in tal caso però non posso giurare che i finti buonisti di oggi non si troveranno a loro agio anche tra i più zelanti xenofobi (dopotutto la loro unica fede è il conformismo).

Polemiche a parte, mi piacerebbe capire se sono l’unico ad assistere a questo fenomeno, e in caso non fosse così, se esso scaturisca da una causa specifica. Ovviamente mi riferisco sempre alla “vita reale”, perché internet, e in particolare i social network, molto spesso offrono un’immagine distorta delle persone (diversamente dalla prima impressione, che è di sicuro il procedimento euristico più affidabile per giudicare il prossimo).

Senza dilungarmi, personalmente credo che il punto dolente sia rappresentato dal tipo di condizionamenti a cui molti di noi sono stati sottoposti. Chi è cresciuto col mito del “buon selvaggio”, potrebbe in effetti trovarsi spaesato nel momento l’immigrato compie qualche atto in contraddizione con la sua presunta bontà naturale, in particolare se questo atto coinvolge il soggetto stesso (perché per i casi che non lo riguardano di solito applica il principio della “mela marcia” o il postulato del “disagio sociale”).

Un’altra cosa che notato è che gli “aspiranti xenofobi”, quando non hanno materiale su cui speculare, riesumano memorie post-adolescenziali pietosamente sepolte dai pregiudizi ideologici sorti per l’appunto dai condizionamenti di cui si è appena detto.

Questo è forse il lato più grottesco: sono diventato un collezionista di aneddoti degli anni ’00 sugli “immigrati cattivi”. Il mio guaio è che ho una memoria come quella dell’Ireneo Funes di Borges e non posso dimenticare nessuna delle scemate che mi vengono raccontate. In generale sono sempre assediato dai ricordi altrui, ma questi li trovo particolarmente fastidiosi: per esempio, quello sul senegalese che al concerto “alternativo” (dove dovrebbero regnare la fratellanza e la condivisione) deruba lo sprovveduto rasta non sono del portafoglio, ma addirittura del bong portatile (sacrilegio! ma non è anche questa “condivisione”?), oppure quello del marocchino che a mezzanotte telefona a un’incolpevole studentessa solo per sapere perché il suo numero si trova tra le chiamate della sua compagna di classe, che sfortunatamente è anche figlia di tale marocchino.

Fosse per me ci farei una sitcom, ma per discrezione non posso scendere nei dettagli (peraltro è evidente che alcune di queste storie, principalmente quelle che coinvolgono “l’amico dell’amico”, sono leggende metropolitane). È comunque indicativo che ci s’ingegni a ricreare un passato di vessazioni; che sia pronto il terreno per un imprevedibile exploit politico? Non sono portato per la sociologia, anche se una volta ho letto in un manuale che “un certo grado di moderato etnocentrismo può essere necessario per l’amor proprio e la lealtà interna, che sono necessari a qualsiasi gruppo che abbia un po’ di coesione” (Salvador Giner).

L’anti-razzismo, specialmente quello nostrano, in fondo assomiglia molto a una forma di “auto-razzismo”. È una questione cruciale, seppur controversa. La regola dalla quale partire dovrebbe essere sempre Ama il prossimo tuo come te stesso. Ora, “noi” ci odiamo, inutile nasconderlo: basta vedere come neppure gli incredibili sforzi che il nostro Paese sta mettendo in atto per salvare ed accogliere il maggior numero possibile di immigrati, nonché il prezzo che gli autoctoni stanno pagando in termini di “qualità della vita” (diciamo così), siano serviti a sfatare le calunnie sugli “italiani razzisti”.

Dunque, secondo i dettami di presidenti e pontefici, insegnanti e giornalisti, sindaci e padroni, filosofi e santoni, gesuiti e farisei (fermiamoci, non vorrei diventare troppo enfatico), dovremmo tutti diventare dei piccoli delatori, stigmatizzare i “peccati del popolo”, ammonire i dubbiosi e gli scettici – o, come minimo, sfotticchiare e ridacchiare del malcapitato che ha avuto un attimo di cedimento verso il radioso futuro multi-tutto che ci aspetta. Beh, io faccio anche questo (con quelli della terza categoria, v. supra), ma a pensarci bene non è l’antipatia verso qualcuno o qualcosa che mi spinge a rifiutare l’ipocrisia di chi sta in alto, quanto la simpatia (cioè compassione) nei confronti di questi poveri italiani, questa classe media tradita, ferita e oltraggiata (e senza nemmeno possibilità di trasferirsi in qualche area protetta).

C’è davvero troppo “perbenismo” (giusta la definizione di uno di questi “peccatori”, appartenente alla prima categoria) attorno al tema. La discussione è blindata, monopolizzata da individui che riversano sugli immigrati le proprie fantasie frustrate di rivoluzione, rigenerazione, redenzione. E qui mi trovo costretto a sfoderarlo, l’argomento definitivo: amare il prossimo vuol dire anche amare il prossimo che verrà, il quale probabilmente sarà lo straniero “integrato” che tanto appassiona (a parole) gli anti-razzisti di maniera. Quelli che però odiano se stessi, saranno capaci di amare lo straniero diventato troppo simile a loro? Mi sovviene, in cauda venenum, la terrificante imitazione di un domestico filippino che anni fa mandava in sollucchero i salotti televisivi: sarà un caso che il primo minstrel show all’italiana lo abbia organizzato proprio la nostra gauche caviar? Direi di no… Ecco un altro argomento da utilizzare con quelli della terza categoria, in aggiunta alla guida Come Smettere di Essere Razzista offerta dall’indispensabile “WikiHow”.

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