Parlare in europeo

La “questione della lingua” in Europa non è mai stata affrontata in maniera seria, anzi, per principio è stata considerata inesistente persino quando la Brexit l’ha riproposta come realtà di fatto. A tal proposito, lo studioso americano Michael E. Jones durante un’intervista ha riportato un sapido aneddoto:

I had this discussion in Germany with friends, there were six of us, the only language we had in common was German. We had to talk German because that was the only language we had in common, and the lady who was the hostess said “Ich bin kein Deutscher, Ich bin Europäer”, I’m not a German I’m a European. And I said to her: ‘Well then tell me how you say ‘Where is the train station in European’. Well, she doesn’t know what to say at that point. You can’t be a European unless you’re a German”.

«Ho avuto una discussione in Germania con degli amici, eravamo in sei, l’unica lingua che avevamo in comune era il tedesco. Dovevamo parlare tedesco perché quella era l’unica lingua che avevamo in comune, e la signora che era anche la padrona di casa mi diceva “Ich bin kein Deutscher, Ich bin Europäer”, non sono tedesca, sono europea. E io le ribattuto: “Allora dimmi come si chiede dov’è la stazione in europeo”. Beh, non sapeva che dire a quel punto. Non puoi essere europeo se non sei un tedesco».

Sarebbe bello fare questo esempio nostro, magari condendolo con le caratteristiche della improrogabilità («Come si chiede “Dove sta il cesso” in europeo?»). D’altro canto nemmeno il più sputtanato degli intellettuali “europeisti” si è mai sbilanciato a proporre una qualche soluzione all’assenza di una lingua comune: tutti troppo impegnati a difendere la libera circolazione di merci e persone (= macchine tedesche e ventenni africani), nonché la libera delocalizzazione e compressione dei salari, hanno trasformato in eresia qualsiasi proposta di unificazione che andasse al di là della moneta comune e del libero mercato.

Quando però ci stavamo rassegnando all’idea che un ungherese e un danese avrebbero comunicato per sempre in broken English (col premio di consolazione dell’assenza di orecchie anglofone nel Parlamento Europeo), ecco baluginare un destino ancora peggiore, nella recente campagna pro-europeista “partita dal basso” (cioè pompata a bestia dalla grande stampa) su Twitter.

Alcuni portaborse wannabe hanno infatti lanciato l’hashtag #FBPE come acronimo di #FollowBackProEU, senza neppure controllare che la sigla non fosse già stata adottata da qualcun altro (come la Fédération Belge Entrepreneurs Paysagistes o il Florida Board of Professional Engineers):

Questa iniziativa dimostra come gli europeisti abbiano interiorizzato il griugiume delle istituzioni che adorano, certificando quindi l’esistenza di una sola ed unica lingua possibile per l’Unione: il burocratese.

Il punto viene indirettamente evidenziato anche da Robert Menasse nel suo ultimo romanzo La capitale, quando mette in scena la faida tra il Partito Popolare Europeo (European People’s Party nella denominazione “ufficiale”) e la European Pig Producers, proprio in nome dell’acronimo EPP (perché “non è possibile che ogni volta che si cerchi i Popolari europei su Google compaiano dei maiali”): la discussione ha anche uno strascico in sede ufficiale, con gli europarlamentari che propongono TEPP (con l’aggiunta del “The”) ignorando che in tedesco significhi “stupido”, “sempliciotto”.

A dimostrazione che nemmeno un’interazione fatta solo di UE, EC, PPE, PSE, UEM, ECOFIN, OCSE, OSCE, potrà garantire la “pace eterna”.

European Languages According To The Dutch (Brilliant Maps)

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