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Pazzi per Trump

I giornalisti di tutto il mondo libero stanno mettendo in scena un grottesco autodafé annacquato di lacrime posticce: “Ci siamo sbagliati perché volevamo che trionfasse il bene”. No, oggi i giornali non solo non li compro, ma nemmeno vado a leggermi le loro scuse sincere (le hanno fatte tutti, dal più piccolo foglietto di provincia al “New York Times”).

Preferisco invece dare un’occhiata a quello che combinano i liberal americani, travolti da un’ondata di irrazionalismo condita con insulti pesantissimi e minacce di vario tipo (le meno innocue sono quelle di suicidarsi o lasciare il Paese). Ogni manifestazione di impazzimento collettivo è motivo di preoccupazione, tanto più se a mostrarne i sintomi sono quelli assolutamente certi di stare dalla parte giusta della storia. Al contrario gli elettori di Trump sono stati talmente demoralizzati dai mass-media che se il loro candidato avesse perso, avrebbero fatto finta di non averlo votato (come del resto hanno fatto fino all’ultimo, falsando sondaggi già di per sé manipolati).

Non amo per nulla il “fondamentalismo dal volto umano”, di qualsiasi stampo esso sia. In più mi rattrista scoprire che ciò che credevo un problema personale dell’inviata della Rai Giovanna Botteri, è in realtà lo stile di una nazione che, da destra a sinistra, ragiona di politica utilizzando esclusivamente categorie non-politiche. Trump sembra aver riportato molti americani coi piedi per terra, costringendoli nuovamente a “fare politica”: uno sforzo ormai quasi impossibile per individui che hanno introiettato il T.I.N.A. (There is no alternative) camuffandolo coi colori dell’arcobaleno. Forse questo spiega la reazione infantile di molti. Get a grip, my fellow Americans…

Avrei voluto osservare gli atteggiamenti degli altri Paesi, ma sinceramente non ho avuto molto tempo. Ho iniziato a scartabellare qualche sito polacco, ma tutto sommato le loro opinioni valgono più o meno come quelle degli italiani, sebbene sia fondamentale per loro (e per noi) capire se effettivamente esiste questa “simpatia” tra Putin e Trump di cui si è tanto discusso, oppure se si è trattato solo di propaganda clintoniana (anch’io non sono ancora venuto a capo del dilemma: il “nuovo Hitler” è isolazionista o guerrafondaio?).

Più interessante, al momento, mi sembrano le reazioni greche: gli unici a festeggiare sono quelli di Alba Dorata, per la cretinata che Trump sdoganerebbe finalmente la pulizia etnica (chi gliel’ha detto?); gli altri invece paiono terrorizzati dal nuovo Presidente. Non è un segreto che quasi tutti i media greci tifassero per la candidata democratica: non solo per conformismo, ma anche per il ruolo svolto dal “clan Clinton” per mantenere la Grecia all’interno dell’eurozona.

Tutti ricordano quando nel luglio 2015 Schäuble ordinò la Grexit (rimangiandosi la parola dopo una carezza sulla spalla di manzoniana memoria da parte di Obama); recentemente alcuni documenti divulgati da Wikileaks hanno rivelato che il braccio di ferro tra il ministro tedesco e la Segretaria di Stato è andato avanti per anni. Nei dibattiti televisivi tra i due candidati il segreto di Pulcinella è stato poi svelato definitivamente: a un Trump che proponeva senza mezzi termini di lasciare Atene nelle mani della Germania o addirittura della Russia («Putin probably comes in to save the day, if Germany doesn’t»), la Clinton ha invece ricordato proprio il ruolo strategico della Grecia per la NATO. Essendo fallita ogni possibilità di mediazione con la Germania, ora tutti si aspettano un coup de théâtre: questo spiega l’angoscia dei greci, che in ogni caso è più giustificata (e dignitosa) di quella degli americani che piagnucolano perché ha vinto il maschietto e non la femminuccia.

La Grecia infatti deve affrontare problemi che la Russia non può risolvere, soprattutto quelli con l’Unione e la Turchia: tenere il piede in due staffe ha consentito ad Atene di rimanere, nei limiti del possibile, indipendente; qualora Trump volesse davvero mantenere le promesse elettorali, i greci si troverebbero costretti a scegliere un destino.

Anche chi da questa parte dell’Atlantico è “pazzo per Trump” nel senso positivo, deve considerare appunto il fatto di non essere americano. Non serve la sfera di cristallo per capire che lo sfaldamento dell’eurozona non incontrerà più le resistenze di appena un anno fa. E mentre nella società americana le tensioni di qualsiasi tipo (sociale, razziale, etnico, di genere) si scioglieranno se Trump metterà in atto le energiche misure espansive che ha promesso, al contrario qui in Europa c’è il timore che la “transizione” venga gestita come al solito nel peggior modo possibile.

Una volta ridimensionato il contributo americano alla NATO, un’alternativa (altamente improbabile) alla dissoluzione dell’eurozona è che i Paesi alleati (in particolare la Germania) venissero costretti dalle circostanze a mettere in pratica una sorta di “keynesismo militare” sul modello di quello reaganiano. Un aumento degli stanziamenti alla Difesa a livello continentale potrebbe prolungare di qualche tempo la sopravvivenza dell’Unione, anche se poi gli Stati Uniti si troverebbero ad affrontare una nuova “questione tedesca”…

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