Stavo per scrivere un’interminabile filippica contro l’ipocrisia green sull’automobile, ma poi mi sono ricordato che i miei lettori mi stanno supplicando di indulgere un minimo alla sintesi, ché altrimenti gli muoiono gli occhi. Allora cercherò di incastonare le mie ricerche in poche pillole (rosse, nere ma anche bianche) per non farvi perdere tempo, al patto che nessuno salti su a dirmi “oh non sai un cazzo e parli” solo perché generalizzo e vado di accetta.
Ultimamente sono usciti due libelli contro l’automobile, uno assolutamente da leggere, l’altro gno. Il primo è l’arringa Contre l’automobile del maurassiano di tendenza céliniana Robert Poulet (1893-1989), pubblicato nel 2022 dall’ottima Iduna, casa editrice che riesce a essere accattivante sin dalle quarte di copertina:
«Ben prima dei Fridays for Future o delle finte preoccupazioni green del turbocapitalismo, l’Autore esprime tutto il suo disprezzo di vecchio reazionario contro gli autoveicoli rumorosi, inquinanti e soprattutto plebei».
Non sto qui a recensirlo perché va letto e basta, anche solo per apprezzare uno stile attualmente proibito a “destra” come a “sinistra”: tuttavia, l’opera meriterebbe un approfondimento a parte soprattutto nella polemica sul “cambio automatico”, attraverso la quale sui social da qualche tempo a questa parte si cerca di distribuire patenti di virilità (la polemica non è però limitata al Bel Paese, si veda il meme para-boomer Real Men Use Three Pedals).
Per Poulet quel marchingegno scricchiolante e rumoroso è roba da bovaro ottocentesco, nonché la cifra di un Occidente che ha abbandonato lo spirito faustiano proprio a livello di quotidianità, per relegarlo in ambiti “asettici” ed eccezionali (pensiamo a qualsiasi corrispettivo del cambio manuale in medicina: chi si farebbe un goccio di whisky al posto dell’anestesia locale?).
Veniamo invece al secondo pamphlet, biecamente contemporaneo (è del 2020), che userò come spunto polemico proprio perché sconsiglio di leggerlo: Contro l’automobile di tale Andrea Coccia. Bu-uh, il petrocapitalismo, l’inquinamento, il traffico, i combustibili fossili (en passant, la definizione è antiscientifica perché dà l’idea di scarsità della risorsa, mentre al mondo c’è talmente tanto petrolio da far sospettare gli studiosi non ideologizzati di una qualche proprietà autorigenerante). Nessun accenno al Poulet (figuriamoci!), ma tanto meno alla componente “umana” (in senso lato) che ha garantito alle quattro ruote un incredibile successo.
È da qui che vorrei partire col pensiamento: a mio parere il “complotto” dell’industria automobilistica che ha convinto le masse che la macchina fosse il mezzo elettivo per spostarsi è un fattore più che accidentale, rispetto ad altre cause ben più profonde e a volte così evidenti che gli studiosi, persi nei loro donferrantismi profutamente pagati, si rifiutano anche solo di osservare.
Ci sono vari livelli di analisi che si intersecano in questa amaxofilia (scusate il neologismo, ma ne rivendico la paternità) e che investono la storia, la geografia, l’antropologia, financo l’etnologia. Voglio però chiamare in causa esempi concreti per non perdermi.
Partiamo dagli Stati Uniti: lì la dimensione “culturale” della mania per le auto sembra molto più sentita che non da altre parti, inserita com’è nell’eterna dialettica tra città e campagna. Penso a un’opera come Il Giustiziere della Notte (parlo del romanzo), dove il protagonista matura la sua nuova identità di “vendicatore solitario” passando da New York all’Arizona: tra le varie caratteristiche che contraddistinguono gli stili di vita del borghese cosmopolita e del signorotto sudista (diffidenza verso lo “Stato”, radicamento nella comunità e sul territorio, amore per le armi eccetera) c’è anche il fatto che a vivere in città ci si dimentica cosa vuol dire davvero “guidare”. Questo perché, in parole povere, la conformazione del territorio influenza la cultura dei suoi abitanti, e viceversa.
Un case study notevole per tale fenomeno lo si può individuare nei cosiddetti Scotch-Irish degli Appalachi, un gruppo etnico che ha mantenuto per secoli il proprio “retaggio” negli usi & costumi, dal modo di vestirsi al linguaggio, dalla gastronomia all’architettura. E, fra le tante cose, spicca la passione “identitaria” per l’automobile. La cosa vi farà ridere, ma devo le considerazioni che seguono a una rivista “razzista” americana che nel mimare i vari cultural studies così in voga nell’accademia ha tracciato un quadro antropologico dei Lowlands Scots del West Virginia piuttosto affascinante.
Questa genia proviene dalle terre di confine, le lande dei “reietti”, degli “stranieri”, che gli inglesi hanno trasformato nella prima tappa dei loro tentativi di invasione. Tale “memoria del sangue” spinge i discendenti degli emigrati da quella regione a tenere una casa modesta ma pulita, ridotta all’essenziale ma in cui non manchi nulla, che sia semplicemente composta di elementi facili da trasportare nel caso dell’ennesima scorribanda del nemico. Anzi, dalla loro prospettiva più una casa appare modesta dall’esterno, meno ci saranno possibilità che il saccheggiatore sia attratto da essa.
Nonostante gli Scotch-Irish abbiano accumulato fortune, invece di costruirsi ville faraoniche hanno preferito investire tutto prima in cavalli, e poi in auto. Gli “scozzesi” degli Appalachi sono dunque passati dal rappresentare la capitale americana degli allevamenti di “purosangue” a diventare il centro dell’amaxofilia nazionale: dallo storico Kentucky Derby di fine Ottocento ai campionati della NASCAR, si registra un passaggio praticamente senza soluzione di continuità. L’importante è avere un mezzo con cui scappare dagli inglesi.
Anche i discendenti degli “scozzesi” che vogliono abbandonare le radici bifolche per diventare cittadini, scelgono comunque, per istinto, località ben distanti da qualsiasi stazione ferroviaria e dove il trasporto locale sia limitato a un paio di fermate per bambini, anziani e disabili. Una sola corriera in più potrebbe attirare la “feccia della società”, che include qualsiasi maschio adulto (indipendentemente, o forse no, dal colore della carnagione) che non possa permettersi un’automobile truccata.
Questo dettaglio spiega il motivo per cui non ho nemmeno accennato alla conformazione geografica degli Appalachi, sia perché non penso di rivolgermi a un pubblico di minus habens, sia perché i comportamenti umani non si possono ridurre alla presenza di una montagna o di una pianura (questo vale anche per la “geopolitica”, ma non apriamo altri capitoli ché molti di voi avranno già smesso di leggere tre paragrafi addietro).
Un caso “simile” a quello d’oltreoceano che, mutatis mutandis, ritrovo in Italia, è quello del Veneto: nella regione esistono infatti innumerevoli elementi che mi fanno pensare a un complicato intreccio etnico-storico-culturale. Partiamo da un dato di fatto: in Veneto non esiste nemmeno il concetto di “metropolitana”. L’idea di scavare sottoterra per piazzarci un treno sembra roba da degenerati, anche se obiettivamente esistono sacrosante ragioni “strutturali” per evitare di farlo, nel senso che in molti territori della ex Serenissima si rischia di far implodere intere città verso le paludi dimenticate.
Eppure, Brescia, uno dei territori più modesti (solo in termini di grandezza!) della Repubblica, ha una metro efficientissima e piuttosto pulito (almeno fino all’ultima volta che l’ho presa, poi non so cos’abbia combinato la “diversità” già piuttosto aggressiva in tempi non sospetti -primi Duemila- da quelle parti). Allora perché, al di là del confine, nessuna provincia può permettersi uno stradon de soto? Il mio sospetto è la vicinanza a Milano abbia convinto i bresciani, sicuramente restii (hanno resistito fino al 2013!), a indulgere a tale “stramberia” contemporanea.
Al contrario, i veneti non hanno avuto alcun esempio virtuoso (o vizioso) da seguire, visto che lo spirito “milanese”, cioè “inglese” (v. gli Scots di cui sopra) cioè liberale, cosmopolita e “borghese” (etimologicamente parlando) si esprime ancora nelle forme talassocratiche di Venezia, talmente “tradizionali” in termini di mobilità da esser rimaste al XV secolo (gondole, vaporetti, traghetti e persino “taxi acquatici”, lol).
La rappresentazione plastica di tale sproloquio la si può apprezzare nel Museo Archeologico agli Eremitani di Padova, dove nella prima sala spicca l’esposizione dello scheletro di un cavaliere che si è fatto seppellire col proprio cavallo: la tomba bisoma, risalente al V secolo a.C. e ritrovata nel 1988 nella Necropoli del Piovego, testimonia una “passione” che oltrepassa i secoli, fino ai millenni, e che solo una certa mentalità nordica (o, per meglio dire, anti-levantina) ha impedito finora di esprimersi in riti funebri comportanti l’inumazione della salma di un patriota veneto nella sua auto (o moto).
D’altro canto, è l’ennesimo dato di fatto che la Regione Veneto, a fronte di una superiorità indiscussa nel panorama italiano (ma oserei dire europeo) nell’ambito dei “servizi” (sanità, associazionismo, tutela ambientale, ristorazione ecc…), quando si parla di trasporto locale finisca per ridursi ai livelli di Nuova Delhi o addirittura Baghdad. Qui a parlare è evidentemente una “voce del sangue” che obbliga a non cedere alla degenerazione del mezzo pubblico: a Milano lo spacciatore marocchino può fare il gansta su Instragram anche in metro, in Veneto deve minimo farsi prestare un’alfetta usata per risultare credibile.
Perciò, in conclusione, quando parliamo di “macchine” non stiamo parlando solo di ferraglia inquinante, ma di un intero universo che si replicherà in modalità tanto differenti quanto perfettamente identiche nelle prossime generazioni. Per questo c’è chi impazzisce nel momento in cui gli si prospetta un’esistenza senza mezzo privato: è come obbligarlo all’estinzione, o addirittura al non essere. Ma di questo riparlerete tra mille anni.
Ciao Tot., scusa se mi permetto ma vorrei dirti che ho definitivamente concluso che la vita fa schifo. Essendo abbastanza codardo, penso che opterò per attendere una malattia letale e non curarmi. Quanto ai tuoi articoli, sì, ultimamente sono un po’ troppo lunghi. Molta sintesi molto onore!
Fai benissimo, è anche la mia scelta, l’importante è non suicidarsi, se vuoi scrivimi in privato
Grazie, la tua risposta mi ha fatto piacere. Sei un’anima nobile. Ma questo già lo sapevo. Saludos.
https://it.m.wikipedia.org/wiki/Disturbo_schizoide_di_personalità