Per una occupazione sostenibile

Marine Le Pen è stata rinviata a giudizio per aver paragonato, durante un comizio a Lione del 2010, la preghiera in strada dei mussulmani parigini all’occupazione nazista. È una notizia che non stupisce, considerando l’antica tradizione francese del double standard (« norme double ») in materia di “incitazione allodio razziale”.

Sull’argomento, già nel lontano 1987 Yann Moncomble raccolse tanto materiale da riempire un libro, Les Professionnels de l’anti-racisme, dove dimostrò che le numerose associazioni antirazziste si guardavano bene dal protestare se a inveire contro gli immigrati e la società multietnica erano politici di sinistra o associazioni ebraiche: per fare un esempio tra mille, quando Georges Marchais, eterno segretario del Partito Comunista Francese, impostò la campagna elettorale del 1981 sul tema dell’immigrazione al grido di « il faut stopper l’immigration officielle et clandestine », non solo nessuna associazione antirazzista trovò da obiettare, ma addirittura l’ex segretario della “Ligue des droits de l’homme” Daniel Mayer dichiarò che il leader comunista tutto sommato aveva fatto bene a raccogliere voti sobillando gli istinti del popolaccio.

In questo caso sarà andata nello stesso modo: dal 2010 a oggi chissà quante personalità del jet-set progressista avranno paragonato l’islam al nazismo (magari durante qualche bella manifestazione a sostegno di Israele). Inutile soffermarsi troppo tempo sulla doppia morale: ormai si tratta di un dato acquisito, un riflesso condizionato. Più interessante, invece, approfondire il parallelo irriverente proposto dalla Le Pen.

Oggi probabilmente la leader del Front National non farebbe più un accostamento del genere: è lì a dimostrarlo l’espulsione dal partito del vecchio Jean-Marie proprio a causa di alcuni incauti giudizi sul maresciallo Pétain. Per i francesi l’occupazione nazista rappresenta una ferita ancora aperta, considerando anche il tacito consenso che essa trovò anche tra gli intellettuali.

La sensazione di “assedio”, del resto, non può che acuirsi in un Paese dove il primo ministro (Valls) dichiara che i cittadini devono abituarsi a convivere col terrorismo e nel quale ogni contestazione alla società multiculturale viene repressa per via poliziesca o giudiziaria.

Se il parallelo dunque regge nel riferimento generico al “clima di guerra”, senza chiamare in causa precedenti storici importuni, esso tuttavia perde tutto il suo valore quando viene ridotto all’equazione (di stampo néo-con) “immigrazione = sharia”.

Il tema andrebbe invece affrontato lasciando da parte ogni connotazione etnico-religiosa, non solo perché anche il razzismo, in fondo, ha bisogno di essere un po’ più democratico, ma anche perché, nella forzata distinzione tra “profugo” e “migrante economico” le società che li accolgono rischiano di fare il gioco proprio di chi sta muovendo loro guerra in modo non-convenzionale.

Detto questo, la questione rimane la stessa: è lecito comparare la presenza di stranieri sul territorio europeo a una occupazione “senza blindati né soldati”? Forse il parallelo sarebbe apparso meno oltraggioso se la Le Pen, comunque desiderosa di dare in pasto ai suoi sostenitori un riferimento storico concreto, avesse chiamato in causa l’occupazione alleata al posto di quella tedesca. Anche se per i custodi del politicamente corretto la comparazione tra le centinaia di migliaia di immigrati arrivati in Europa negli ultimi anni e un esercito straniero continua a suonare come blasfema, esiste la speranza che il pensiero risulti meno sacrilego qualora venisse mantenuta la metafora bellica, ma al contempo si considerasse l’esercito invasore come alleato, o addirittura amico,  sbarcato dalle nostre parti per pagare le nostre pensioni fare i lavori che non vogliamo più fare, oltre che per rinnovare finalmente il corpaccio sociale con un’adeguata sostituzione.

È noto che la maggior parte di “rifugiati” con cui l’Italia ha a che fare (non essendo così fortunata come la Germania, che può permettersi di essere selettiva senza passare per razzista), sono tutti giovani maschi africani “abili e arruolabili”, la cui immagine contrasta con quella della “sacra famiglia siriana” propagandata dai media.

Non è un aspetto secondario della questione: l’etologo Eibl-Eibesfeldt identifica la presenza di donne e bambini accanto agli ospiti stranieri tra gli elementi che più contribuiscono a inibire l’aggressività e ad attivare il comportamento di soccorso. Quando le bellicose tribù degli Yanomamö si incontrano per la festa del frutto della palma, «i bambini danzano con foglie verdi di palma, simbolo di pace, accanto ai guerrieri che si presentano con un portamento aggressivo» (Etologia della guerra, Torino, 1999, p. 120). È lo stesso atteggiamento che i capi di Stato assumono, in visita ai loro omologhi, portandosi appresso la famigliola.

Pertanto a esasperare gli animi e intralciare il processo d’integrazione non contribuisce esclusivamente la xenofobia strapaesana (che tuttavia i comunisti francesi degli anni ’80 erano disposti a giustificare senza problemi), ma anche la latitanza di donne e bambini, quelli che, secondo una antica regola (decaduta?), dovrebbero venire per prima.

A questo punto, per trovare un punto d’accordo tra le diverse tendenze che rischiano di far implodere le nostre democrazie, la modesta proposta sarebbe quindi, come è stato detto, quella di considerare i “migranti” (già che ci siamo adeguiamo anche il lessico alle direttive del Ministero della Verità) sì come un esercito, ma di alleati, di soldati amici come ll’americani, rigeneratori della società, sostenitori delle finanze pubbliche e apostoli del multiculturalismo.

Un’occupazione sostenibile, quasi equosolidale, via… Così all’impressione di trovarci in mezzo a una guerra di tipo nuovo potremmo sostituire l’illusione di non essere tra gli sconfitti.

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