Da quando Netflix ha dedicato una serie al caso di Yara Gambirasio è stata sdoganata anche nelle varie parrocchiette politico-culturali l’idea che forse Massimo Bossetti non abbia davvero nulla a che fare con l’uccisione della tredicenne di Brembate.
In verità dell’enormità di questo errore giudiziario, che a mio parere è il corrispettivo repubblicano dell’infausto Affare Girolimoni dell’era fascista (ma si potrebbe citare direttamente la manzoniana Colonna Infame), se ne discuteva già in tempi non sospetti (rimando, per esempio, al sito iostoconbossetti.it), eppure è solo dopo una decina di anni che finalmente qualche crepa si sta aprendo nella cortina eretta dal sistema politico-mediatico-giudiziario.
Non ho intenzione di approfondire i motivi che dovrebbero far sorgere in chiunque dubbi riguardanti la condanna del Bossetti: per questo ho segnalato i video di Andrea Lombardi, ed eventualmente potrei rimandare all’eccellente Yara Gambirasio. Un caso irrisolto di Federico Liguori (trovate suoi numerosi interventi su YouTube), che mi riservo di approfondire in altra sede nonostante per chi segue il caso siano elementi già noti, i quali tuttavia con questo volume ottengono una eccellente “sistematizzazione” (perciò ne consiglio la lettura anche agli “iniziati”).
Vorrei piuttosto portare l’attenzione su elementi che sfuggono a molti commentatori, vuoi perché non così marcatamente orientati in senso politico come il sottoscritto, vuoi perché, a ragione, temono di indulgere in un qualsiasi “complottismo”. Per quanto mi riguarda, io do una lettura del caso più ideologica, partendo dal fatto che i meccanismi in cui è finito stritolato Bossetti sono espressioni di un “sistema” i cui dogmi provo a definire a grandi linee di seguito.
In primis bisogna partire dal potere giudiziario, cioè la magistratura e in generale tutti gli apparati atti a comminare pene e assoluzioni, i quali dopo il rivolgimento di Mani Pulite (una transizione in cu itale potere si è intestato la necessità di una riforma della politica tramite processi e arresti sommari), ha ricevuto un’investitura pseudo-divina che lo rende legibus solutus e refrattario a ogni “equilibrio”.
Tale pregiudizio positivo nei confronti della magistratura si è innestato poi nel clima politico della Seconda Repubblica, che in base alle vicissitudini giudiziarie di Silvio Berlusconi ha sostanzialmente fatto nascere due “tifoserie” opposte che hanno dato al giustizialismo una connotazione “sinistrorsa” e al garantismo una “destrorsa”.
La crisi tra politica e giustizia dell’epoca è rappresentata, giusto per fare un esempio, da quei personaggi militanti nel campo “pro-giudici” che una volta incappati nel vortice dei tribunali (scomodare la “situazione kafkiana” sarebbe banale) piuttosto che combattere una lotta interna al proprio partito per giungere a una blanda riforma del sistema, hanno preferito direttamente cambiare casacca e recarsi in pellegrinaggio ad Arcore (scelta sacrosanta, se la prospettiva fosse stata quella di farsi anni di galera in nome della “moralità rivoluzionaria” non più calibrata da ghigliottine o tribunali del popolo, ma dalla spettacolarizzazione delle inchieste su determinati uomini politici).
Questo è il primo punto, che definirei di “forma”. Per quanto riguarda la “sostanza”, sin dal momento in cui è partita la macchina del fango contro Bossetti ricordo che un commentatore su YouTube (Andrea Porta) aveva notato che la “narrazione” seguiva uno schema preciso: l’eroina della fiction mediatico-giudiziaria (in tal caso la PM, comunque non esente da manie di protagonismo, considerando tra le altre cose che prima della fine del processo è comparsa nel documentario della BBC Ignoto1, sortita per cui è stata persino indagata) doveva a tutti i costi trovare un “orco da prima pagina”, un “capro espiatorio maschio e adulto”, nonostante gli indizi conducessero a tutt’altro scenario.
Persino il più ingenuo degli osservatori può rendersi conto che qui è in atto, pure in “buona fede” (cioè in maniera inconscia), un qualche paradigma che ha permesso la creazione di un “maniaco” patriarcale e stupratore totalmente estraneo dal contesto in cui si sarebbe verificato il delitto.
Da una prospettiva più ampia, che comprende tutta la paranoia successiva sui “femminicidi” (un tema che, per quanto doloroso, non rappresenta in alcun modo un’emergenza sociale o nazionale nonostante i toni allarmistici dei media), si può intuire come un padre di famiglia, un lavoratore lombardo senza troppi grilli per la testa e per questo piuttosto “piccolo borghese” (più dal punto di vista “morale” che “materiale”), nonché naturaliter leghista, abbia potuto rappresentare il “colpevole perfetto” (posto che con le medesime modalità, in un universo parallelo in cui non esiste ancora la possibilità di individuare il DNA di un individuo, in galera ci sarebbe potuto finire benissimo Mohamed Fikri, il marocchino che venne “braccato” per un’altra clamorosa svista sulle intercettazioni).
Non voglio però ridurre una questione così importante alla discussione da bar. Tuttavia, a mio parere esiste una radice “politica” che ha portato a questo orrore giudiziario. E lo intendo nella maniera più nobile possibile, senza però voler indulgere in espressioni altisonanti come “metapolitica” o “filosofia”. Ciò che penso io è che i vari sistemi giuridici occidentali si sono infilati nel cul-de-sac della dicotomia fra “giustizia” e “vendetta”, dunque sostanzialmente rimuovendo la figura stessa della vittima nel confronto tra il reo e la legge, e adottando una prospettiva quasi esclusivamente “utilitaristica”, che fa del diritto uno strumento asettico atto solo a “prevenire” e mai a “curare” (sempre per capirci).
La questione non è trascurabile se, per esempio, la giustizia americana ha incorporato nelle proprie dinamiche il Victim Impact Statement, che nel ricordo delle vittime da parte di parenti e amici prima che venga emesso un verdetto a volte assume toni profondamente perturbanti della -presunta- “neutralità” dei giurati. Immaginate introdurre un elemento del genere in Italia, che nondimeno ha fama di essere una nazione sentimentale e piagnucolosa. Eppure, se in quella che viene definita “la più grande democrazia del mondo” si accetta un dispositivo di tal fatta, per giunta in un contesto dove dovrebbe trionfare il “pragmatismo” (dunque una riduzione delle pene a pura “deterrenza”), probabilmente la questione non è così di “lana caprina” come potrebbe apparire.
Infatti, episodi come quello di Bossetti rappresentano proprio la falsità dell’opposizione giustizia/vendetta che, complice anche il cosiddetto “buonismo” (sempre a fasi alterne e a seconda di chi è il sospettato), non trova altre valvole di sfogo che nell’imbastitura di una periodica “caccia all’untore” la quale servirebbe per l’appunto a riconfermare la validità del diritto negli animi di una comunità sempre più sfaldata.
Del resto, al di là dei sofismi, se Bossetti fosse effettivamente uno spietato assassino, come si concilierebbe il trattamento a cui quest’uomo è stato sottoposto con tutte le smancerie pseudo-illuminate del “Nessuno tocchi Caino” e gli psicologismi o sociologismi assortiti, i quali in ultima analisi riducono il carnefice a vittima (s’intende “vittima” della società, dell’intolleranza, del capitalismo, della natura matrigna ecc…)?
E badate che non sono stati i settimanali scandalistici a “spettacolarizzare” il caso, quanto l’apparato politico-mediatico-giudiziario che riesce letteralmente a “cavare il sangue dalle rape” nel momento in cui seguono direttive che, per usare una coppia di aggettivi evocata in diversi passaggi dal Liguori, appaiono quantomeno “inquietanti e grottesche”, oltre che enigmatiche e oscure.
Perciò non voglio concludere che sarebbe necessario un “Golpe Bossetti” almeno per risanare certe ferite che piagano il corpo della Repubblica, ma almeno rendersi conto che quando si discute di “malagiustizia” non si sta parlando tanto di bizze individuali del magistrato di turno o della corruttibilità dei giudici, quanto di un “sistema” (purtroppo non trovo altra espressione adeguata) che appare irriformabile da qualsiasi direzione lo si voglia approcciare.