Perché l’Europa a trazione tedesca non può funzionare

Al grido di Fair Trade! Donald Trump ha annunciato la fine della moratoria sulle importazioni di acciaio e alluminio da Europa, Canada e Messico, estendendo quei famosi dazi di cui si parla da tempo e sancendo così l’inizio ufficiale della guerra commerciale col Vecchio Continente. Per tutta risposta, Juncker e il suo entourage hanno sfoderato la stessa retorica da “Fortezza Europa” usata dopo la Brexit, con la consapevolezza che per non compromettere l’export tedesco sarà necessario umiliarsi persino di fronte all’imbarazzante Presidente americano (in primis fingendo di imporre ridicoli e insignificanti “contro-dazi”, su jeans e sigarette…).

E’ questa la conseguenza tanto inevitabile quanto ignorata di una Europa modellata sulle politiche economiche di Berlino: come ha affermato lo storico britannico Niall Ferguson in un’intervista al “Corriere”, «La Germania ha basato la propria crescita sul deficit commerciale degli Stati Uniti, […] non c’è molto che i tedeschi possano fare, dipendono troppo dall’accesso al mercato statunitense. Avrebbero dovuto fare di più in questi anni per sviluppare la loro economia interna e esprimere domanda per i prodotti degli altri Paesi».

Gli altri membri dell’Unione avrebbero dovuto cogliere da un pezzo i segnali provenienti da oltreoceano e risolvere in proprio la questione del surplus commerciale tedesco, senza nascondere la propria incapacità (o codardia) dietro la propaganda della “Germania più brava di tutti”, oppure demonizzando la protervia di Berlino dimenticando che le cause per l’abominevole squilibrio vanno rintracciate anche nel costante rifiuto di riconoscere l’esistenza stessa del problema.

Riguardo al primo punto, potremmo dire che Trump è un Obama che ce l’ha fatta, o ancora meglio un Obama declintonizzato, la cui unica ansia dipende da un Russiagate insignificante e non da un Chinagate che, nel silenzio dei media, ha per anni orientato la “globalizzazione” in conformità ai desiderata delle élite transnazionali. Tuttavia, è soprattutto il secondo punto, all’apparenza secondario, a divenire cruciale nel contesto attuale, poiché è in virtù di tale equivoco che, per esempio, uno come Guy Verhofstadt può lanciare appelli alla “solidarietà” tra Paesi del Nord e del Sud riuscendo a restare serio.

Vediamo di fare il punto: da una parte c’è una “destra” che coltiva il miraggio della Festung Europa, sperando di poter colonizzare economicamente l’intero pianeta saltando sull’ultimo vagone della “locomotiva tedesca”; dall’altra c’è la “sinistra” spreadista e mercato-centrica, che proibendosi qualsiasi alternativa politica è costretta anch’essa ad attaccarsi alla “locomotiva”, con la speranza che “facendo i compiti a casa” prima o poi riuscirà a commuovere Berlino e a “costringerla” a estrarre dal cilindro la “solidarietà” tanto anelata (ma adesso scopriamo che pure quella la vogliono “pagata in anticipo”!).

Alla luce del fatto che la “sinistra” è, in un modo o nell’altro, subalterna alla “destra” (filotedesca per questioni squisitamente timotiche ‒ tra poco mi spiego), possiamo trarre una conclusione univoca: la Germania (il Nord) non ha alcun interesse a “solidarizzare” col Sud, neppure nella misura in cui tale solidarietà si traducesse in un’annessione. Del resto, se  si verificasse uno scenario simile, la famigerata “Europa” finirebbe per funzionare come una “Italietta” qualsiasi, e forse proprio in tal caso si misurerebbero tutti i limiti della “metafisica da bottegai”, in particolare nell’incapacità di portare a termine la più semplice delle meridionalizzazioni (perché realizzabile solo con mezzi economici e non militari) rifiutando categoricamente qualsiasi politica assistenzialista (riservata, per banale etnocentrismo, soltanto talla Germania dell’Est).

Tuttavia, mettiamo pure che per una stravaganza della storia, diventassimo finalmente tutti “produttivi”, “onesti” ed “efficienti” come i tedeschi (nonostante il “miracolo mercantilista” tragga la sua forza proprio dall’impossibilità di essere replicato): qualora l’Italia (o, senza esagerare, la Lombardia, oppure il Veneto) riuscisse a competere con Berlino sulle esportazioni riducendosi a pane e acqua, l’unico risultato che da ciò scaturirebbe sarebbe l’affossamento immediato di una Unione non più conforme, appunto, alle esigenze tedesche.

In nessuno caso Germania e Italia potrebbero muovere l’economic warfare da una posizione comune: nella circostanza attuale, infatti, Verhofstadt da una parte incita alla “solidarietà” immediata da parte dei Paesi del Sud contro i dazi di Trump, ma dall’altra perlomeno si sente in dovere di evocare la possibilità di una “riforma”. Il ragionamento implicito (e contorto) è che noi dovremmo difendere sulla breve distanza l’Europa a trazione tedesca per porre le condizioni di possibilità del suo superamento. Al contempo, però, Berlino ci impone di diventare “a sua immagine e somiglianza” per non doverci umiliare con l’assistenzialismo (questa è la timocrazia a cui accennavo, intesa solo nel senso di “governo dell’onore”: qualcuno ricorderà il punto sollevato in cauda venenum da quel rivoltante articolo dello “Spiegel”: «Nessun paese, che abbia anche a cuore la propria reputazione pretenderebbe di essere aiutato dagli altri se può farlo da solo. Chi vuole essere considerato uno scroccone?»), pur con la consapevolezza che, come osservato, il suo modello non è replicabile, e nel caso lo fosse comporterebbe ugualmente una condivisione dei profitti (e non solo delle perdite, come è accaduto finora).

Ecco perché una “Europa” del genere non potrebbe funzionare in alcun modo; anche chi si illude che sia solo un problema degli italiani fannulloni e corrotti, potrà contare su una certezza: che per quanti sforzi faccia, non riuscirà comunque a morire tedesco…

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