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Perché le donne non reagiscono agli stupri?

Spesso mi domando perché capiti raramente di leggere nella cronaca notizie di donne che si difendono dagli stupratori. Eppure la nostra società sembra di continuo strizzare l’occhio all’eventualità che una appartenente al gentil sesso, anche armata, si faccia giustizia contro il maschio violento e patriarcale (preferibilmente bianco, italiano e di simpatie destrorse, perché con le varie minoranze etnico-politiche-religioso-culturali già il mainstream ha più difficoltà a distribuire patenti di bontà e cattiveria). Come se non bastasse, dal più piccolo dei supermarket fino alle armerie più attrezzate (ma anche edicole, empori cinesi e persino gli ambulanti bengalesi per strada) è ormai un fiorire di tutta una serie di armi di autodifesa pensate specificamente per un target femminile (spray al peperoncino colorati di rosa o con l’icona stilizzata di una ragazza formosa che lo spruzza in faccia al molestatore mascherato ecc…).

Però, come si diceva, è davvero inusuale non solo che una donna reagisca, ma che addirittura cerchi aiuto o si dia direttamente alla fuga. Negli Stati Uniti il dibattito è all’ordine del giorno perché il problema ha seri risvolti nelle aule dei tribunali, dove nonostante l’andazzo ultra-femminista del sistema politico-mediatico è comunque necessario dipanare ogni dubbio sulla vexata quaestio del “consenso”. Qualche studioso ha provato a dare delle risposte: degno di nota l’intervento di James W. Hopper sul Washington Post (Why many rape victims don’t fight or yell, 23/5/15), nel quale si parla in modo “tecnico” dei motivi per cui molte donne non reagirebbero a uno stupro.

In breve, lo psicologo elenca i principali fenomeni di “non reazione”: in primo luogo il cosiddetto freezing, ormai giunto in Italia come anglismo (a volte è necessario farsi prestare qualcosa pure dall’anglosfera, pena tradurre con l’improponibile “congelamento” o con pseudo-neologismi fuorvianti come “impietrimento” o “pietrificazione”) e che si verifica quando l’amigdala “rileva un attacco e segnala al tronco cerebrale di inibire il movimento: succede in un lampo, al di là di ogni meccanismo cosciente”. Un livello ulteriore di paralisi è la tonic immobility (anche questo intraducibile), in cui il corpo si irrigidisce dalla paura e, a differenza del freezing, si denota l’assenza di qualsiasi capacità di reazione. Poi c’è la collapsed immobility, che comporta svenimento e perdita di coscienza, e la dissociazione, ovvero, come dice la parola stessa, una disconnessione totale dall’ambiente esterno.

Esiste poi tutto un filone di studi, chiaramente non incentivato dall’accademia, riguardante l’imbarazzante rapporto che stupro e piacere sessuale intrattengono nell’inconscio femminile. Chiunque può usare un motore di ricerca per informarsi: per esempio, oltre il 30% del campione di donne vittime di violenza intervistate in questo studio affermano di aver provato piacere nell’esser state stuprate o addirittura di essersi sentite attratte dall’aggressore (anche se senza alcuna specifica sull’aspetto fisico di quest’ultimo certe testimonianze lasciano il tempo che trovano).

La questione, lo ammetto, è controversa, ma è un dato di fatto che in un contesto in cui le donne vengono apertamente invitate a farsi giustizia da sé (con la garanzia, se non di assoluzione, del sostegno completo di tutto il baraccone mediatico, che attualmente forse conta di più), con corredo di ampia offerta commerciale di armi non letali, le reazioni tardino a venire. Certo, non mancano i casi in cui una donna che si difende da sola finisca nel tritacarne giudiziario: nel gennaio 2019, per fare un solo esempio, una ventunenne ginevrina è stata denunciata per aggressione dopo aver fratturato il naso ad un ventenne afghano che l’aveva palpeggiata durante i festeggiamenti di Capodanno a Vienna.

Il rifugiato faceva parte di una gang che aveva già importunato altre donne durante la serata: questo non gli ha impedito di fermare dei poliziotti presenti in piazza e denunciare la ragazza per lesioni personali gravi (oltre a farsi accompagnare all’ospedale per la ferita al volto). Ciò nonostante, un magnate svizzero, Christoph Blocher, si è offerto di pagare le spese processuali della ragazza, segno di quel che si diceva, ovvero che se sei donna e reagisci anche “superando il limite” (magari non un semplice botta sul naso) non è inusuale che qualcuno corra in tuo aiuto (se non da “sinistra”, almeno da “destra”: dipende anche dalla natura dell’aggressore, seppur tutti si affrettino a dire che le modalità con cui viene affrontato il tema della violenza sulle donne siano “apolitiche” e “neutrali”).

Da tale prospettiva, mi hanno colpito due episodi di cronaca (o, per meglio dire, il modo in cui sono stati interpretati) recentemente accaduti in Italia: il primo riguarda una ventunenne italiana molestata sul treno Milano-Bergamo da un trentaseienne egiziano, che ha suscitato clamore soprattutto per la testimonianza della vittima, la quale ha dichiarato che un altro passeggero, un uomo sulla trentina, avrebbero “compreso quanto stava per accadere” e si sarebbe allontanato dallo scompartimento, lasciandola in balia dell’aggressore.

I resoconti dell’accaduto sono molto confusi, ma pare che la ventunenne sia riuscita a colpire l’egiziano al volto e a scappare; ad ogni modo, ciò che ha fatto indignare commentatori e giornalisti è stata soprattutto la reazione di quell’anonimo trentenne, che non si è capito effettivamente quale ruolo avrebbe dovuto detenere nella vicenda, anche partendo dal presupposto che avesse compreso tutto (ma i resoconti confusi di cui sopra indicano un rapporto inizialmente “amichevole” tra l’egiziano e la ventunenne, tanto che costei avrebbe accettato l’invito di sedersi al suo fianco – non che questo significhi qualcosa, ma la frettolosità nel giudicare taluni atteggiamenti o vale per tutti o per nessuno).

Dicevamo: tenendo per certo che il cagasotto senza volto avesse perfettamente intuito quel che stesse accadendo, non viene però data una risposta concreta a quale atteggiamento avrebbe dovuto mantenere. Chi afferma che “avrebbe quanto meno dovuto avvertire la Polizia Ferroviaria” sa di essere in malafede, perché il tizio sarebbe comunque stato costretto ad abbandonare il vagone, cercare qualche scampolo di autorità sul treno e poi tornare indietro in un battibaleno (il fattore tempo non è trascurabile: si consideri solo che, nel momento in cui la vittima ha effettivamente indicato agli agenti dove si trovasse l’aggressore, questo si fosse già dileguato).

È chiaro quindi che il 30-Year-Old Fantozzi sarebbe in qualche modo dovuto intervenire per fermare l’egiziano, e si intende non leggendo ad alta voce i passaggi più toccanti dei Monologhi della vagina o fischiettando il motivetto di qualche gruppo lesbo-punk, ma come minimo mettendo fuori gioco lo spietato palpeggiatore. Purtroppo la nostra società è schizofrenica e non c’è modo che riesca a offrire UNA indicazione pratica su come agire in certe situazioni.

A dimostrazione indiretta dell’incredibile confusione (ideologica, politica, morale, spirituale) che caratterizza i nostri tempi, c’è la reazione degli stessi custodi dell’opinione pubblica verso un altro caso, accaduto sempre in quei di Milano (ormai nell’immaginario divenuta capitale della merda): il 94enne che ha “salvato una donna da uno stupro” brandendo… una scacciacani (con tanto di tappino regolamentare).

La vicenda è questa: alle sei di una sera di metà maggio un uomo di colore (poi si chiarirà il motivo della vaghezza) ha seguito all’interno del suo palazzo una donna di 44 anni e l’ha aggredita. Il vicino ultranovantenne, attirato dalle urla della signora, è intervenuto prontamente impugnando l’arma finta di cui sopra. Per quanto riguarda l’aggressore, si è inizialmente parlato di un ventitreenne gambiano (e ancora molte testate non hanno corretto l’affermazione), mentre è poi venuto fuori che si trattava nientedimeno che di un turista statunitense ventinovenne (evidentemente afroamericano) affetto da problemi psichici.

Il particolare è stato incredibilmente sottovalutato non solo dai media, ma dall’improvvisato “supereroe” in persona che, per quanto meriti encomi e gagliardetti, ha probabilmente fatto il passo più lungo della gamba andando in televisione a dare lezione di coraggio e senso civico ai suoi concittadini (e coinquilini). Perché anche lui si è accorto benissimo, come ha dichiarato alla stampa, che il fatto che il ladro non abbia compreso di essere al cospetto di un’arma finta sia stato un elemento cruciale nell’evitare una tragedia. In effetti, se si fosse trovato davanti un vero gambiano, ma anche un marocchino, un albanese o un romeno non estranei a un contesto criminale, chiunque di costoro si sarebbe immediatamente reso conto dell’assoluta innocuità dell’equipaggiamento del nonnino (posto che lui sostenga che la sua scacciani “è di metallo e pesa un chilo”: d’accordo, ma, con tutto il rispetto, settant’anni fanno ugualmente la differenza in una colluttazione corpo a corpo).

La casualità di aver avuto a che fare con un nero americano, cioè uno che viene da una nazione dove il concetto di “scacciacani” praticamente non esiste (essendo assimilate direttamente ai giocattoli per bambini, visto che persino sul set dei film si usano le pistole vere) e che avrà subito dedotto di trovarsi davanti a un’arma carica, decorata col tappino rosso solamente in virtù di qualche vezzo dell’attempato cowboy meneghino, è stata decisiva.

Mi sembrano considerazioni piuttosto scontate. E allora perché fare di un esempio sbagliato l’ennesimo “modello” impraticabile? In conclusione, per difendere una donna da uno stupro si dovrebbe brandire un’arma finta addobbata in modo che si capisca che è finta (ricordo che è reato rimuovere il tappino regolamentare, a meno di non tenerla poi chiusa in un cassetto) e auspicare che il violentatore di turno sia almeno afroamericano e fuori di testa.

Non sarebbe invece meglio stabilire regole chiare, del tipo: le donne hanno tutti gli strumenti e le possibilità per difendersi da sole, ma se sono totalmente incapaci di farlo allora bisogna metterle in condizione di poter circolare liberamente senza minacce alla loro incolumità. Quali soluzioni adottare a tale scopo? Dal punto di vista del patriarcato, lo scenario sembra win-win, perché o si contempla l’inasprimento delle pene per tale reato, compresa l’estradizione per gli stranieri che lo commettono (una misura smaccatamente di stampo “fascio-maschilista” che dovranno accettare anche quell* che ripetono continuamente che “il 99% degli stupri avvengono in famiglia” mentre assistono all’arresto non di loro cugino metrosessuale ma dello spacciatore di quartiere Abdel), oppure si è costretti ad adottare alcune usanze considerate generalmente “islamiche” (ma in realtà di puro buon senso) come il divieto alle donne di uscire di casa non accompagnate dal marito o dal mahram.

Con tutto ciò, è indispensabile che prima o poi, e in un modo o nell’altro, le istituzioni vengano colpite da un attimo di lucidità. La confusione stessa è il modo in cui un sistema marcio riesce ancora a sopravvivere: la priorità è la sicurezza delle donne, ci mancherebbe, ma se un immigrato stupra allora il vero colpevole è il maschio italiano che non ha reagito, posto che le donne sanno benissimo difendersi da sole, e sempre premettendo che l’unico maschio bianco etero autorizzato a reagire deve avere minimo compiuto 90 anni e brandire un’arma finta….

Capisco che la strumentalizzazione della questione sia di per sé sbagliata, ma piuttosto che dover sopportare all’infinito il teatrino pseudo-femminista, meglio si faccia avanti una destra spregiudicata e lo utilizzi non per distruggere la famiglia e trasformarci in sottouomini (come è stato fatto finora), ma per ripulire un po’ i quartieri dalla feccia o eventualmente stabilire chiaro e tondo che l’islam ha ragione sulle donne.

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