[Ho deciso di raggruppare tutti le “puntate” riguardanti il tema dell’antisemitismo in un unico post, tentando di essere il più sintetico possibile]
L’antisemitismo è forse uno dei pochi fenomeni a ripresentarsi in maniera costante nella storia dell’umanità: in un modo o nell’altro lo ritroviamo in qualsiasi società e a qualsiasi latitudine, praticamente ovunque ci sia un ebreo (e talvolta anche dove non ce ne sia alcuno). Tale constatazione non deve però trarre in inganno sul carattere profondamente eterogeneo rappresentato da questa realtà. Per certi versi, si potrebbe arrivare a dire che non solo ogni popolo e comunità odia gli ebrei per motivi diversi, ma che le ragioni spesso variano da persona a persona, riflettendo in molti casi un percorso sui generis.
Non voglio improvvisare chissà quali ricostruzioni storiche, anche perché quando cerco di fare il serio tutti mi snobbano. Dunque cercherò di offrire qualche elemento in grado di suffragare la mia tesi, per poi aggiungere i soliti dettagli autobiografici che tanto interessano al pubblico.
Partiamo dal dato di fatto che chiunque sia in grado di rendersi conto della natura tutt’altro che monolitica dell’antisemitismo, semplicemente osservando come l’avversione all’ebraismo possa avere motivi religiosi, oppure etnici, economici, sociali, culturali, politici, storici ecc.
Per esempio, ci sono studiosi che interpretano il fenomeno dell’antisemitismo in chiave anticristiana e riducono quindi le sue manifestazioni nell’antichità a improponibili fattori “etnici” (ormai è la linea prevalente da qualche decennio nella storiografia contemporanea): eppure, basterebbe solo aver ascoltato qualche lezioncina di storia sui banchi di scuola per aver presente la varietà di pretesti con cui egizi, greci o romani espressero la loro avversione verso i giudei.
I problemi che si pongono anche a partire dall’approccio più cauto possibile alla questione sono insiti nel significato stesso della definizione di “antisemitismo”: se da una parte molti la utilizzano per conferire alla qualifica di “ebreo” il carattere metastorico (o addirittura metafisico) di “vittima assoluta”, dall’altra essa non dovrebbe essere utilizzata nel momento in cui gli israeliti rappresentano non una minoranza esiliata e perseguitata ma una potenza imperiale che muove guerra ad altri popoli (parlo del X secolo a.C. così come del XXI secolo d.C.).
Nel caso dell’Antico Egitto, è obiettivo che i fondamenti storici dell’antisemitismo diffuso in tale civiltà siano sorti dagli scontri diretti con gli eserciti dei regni ebraici che, tramandati di generazione in generazione, si sono in seguito contaminati con motivi culturali (accuse di eccessivo formalismo ed esclusivismo etnico-religioso) poi confluiti in parte nella mentalità degli antichi elleni e adattati alla loro sensibilità politica (gli ebrei come espressione di quella “barbarie” che avrebbe distrutto la polis) e morale (gli ebrei come rappresentanti di quella misanthropia che avrebbe minato le basi della civiltà), passando quasi senza soluzione di continuità nelle raffinatissime polemiche dei filosofi della Roma imperiale.
Ora, siccome non voglio annoiarvi (a parte che non so nemmeno a chi mi sto rivolgendo, forse solo a qualche agente della polizia postale che deve stilare il solito dossierre), arrivo subito al sodo: quanto detto finora mi serviva solo per affrontare il tema da una prospettiva evenemenziale (l’unica che mi si adatta, nonostante essa sia disdicevolmente di origine gallica). Ricominciamo perciò da tre tableaux dalla vita contemporanea: una lezione di storia in una scuola elementare italiana, gli scritti antisemiti di Voltaire e uno spezzone da una serie televisiva americana.
La prima scena si svolge in un’aula di una scuola primaria della provincia milanese, dove la presenza immigrata è piuttosto cospicua (capirete subito il perché della precisazione): durante una lezione di storia, materia che i programmi ministeriali hanno trasformato in un’interminabile approfondimento a base di schede e disegnini su dinosauri, sumeri, fenici, civiltà dell’Indo ed Etruschi (ditemi voi se non è un complotto per impedire che in cinque anni vengano anche solo affrontati non i Romani, ma persino gli “illuminatissimi” Greci!), si parla di qualche trascurabile conflitto tra l’Egitto dei Faraoni e un regno giudaico del Primo Tempio. L’alunno di origine egiziana, di solito piuttosto educato e taciturno (rara avis), si infervora ed elogia la nazione di provenienza come avversario invincibile per Israele.
Il sottoscritto, che causalmente si trovava a fare supplenza nell’istituto in questione, dopo aver fatto qualche blando distinguo, alla fine della giornata di lavoro (si fa per dire) decide di comprendere i motivi per cui il ragazzo ha evidentemente associato l’attuale scontro geopolitico tra Il Cairo e Tel Aviv a un evento così remoto da assomigliare a un favola per bimbi un po’ attempati (gli storici di professione).
Scopro pertanto che Mohammed (nome di fantasia, che casualmente coincide col suo nome vero) è giunto in Italia da poco e ha quindi già assimilato parecchie nozioni nel Paese d’origine (il fatto che parlasse già così bene la nostra lingua mi fa presumere un’intelligenza superiore alla media). Il padre, un onesto ingegnere, aveva deciso di declassarsi a livello sociale pur di lasciare l’Egitto, per motivi che francamente non ho voluto indagare (sia per disinteresse che per riserbo): ad ogni modo, il quadro generale della situazione mi ha aperto uno spaccato della realtà egiziana che, seppur presagibile, risulta comunque affascinante se rintracciato dalle “fonti”.
Il bambino egiziano, per farla breve, può costruire la propria forma mentis avvalendosi di una perfetta corrispondenza tra la lezione di storia sull’Antico Egitto e il servizio del tg serale sui controlli al valico di Rafah. La difficoltà nel definire tutto ciò come “antisemitismo” rispecchia l’ambiguità dell’espressione a cui si accennava, perché qui confluiscono decine di fattori che influenzano la natura del sentimento, il quale si presta del resto ad altrettante decine di interpretazioni. Per dire: il destrorso filoisraeliano parlerà di “fondamentalismo islamico” e ricollegherà questa avversione verso gli ebrei a motivi religiosi, mentre il sinistrorso palestinista giustificherà l’entusiasmo del ragazzo in base alla corrente situazione politica internazionale.
Potete ben intuire quanto sia alta la posta in gioco, a livello ideologico, in tali frangenti. Facciamo allora un esperimento mentale: i programmi scolastici della scuola italiana magicamente ritornano a quelli degli anni ’90 e l’ultimo anno di elementari viene dedicato interamente alla storia dell’Antica Roma (en passant notate come questa compartizzazione rigida fosse frutto di una diluzione degli insegnamenti, ché fino agli anni ’80 i bimbi d’Italia a dieci anni avevano almeno sentito nominare non solo Napoleone o Garibaldi, ma anche il Gattamelata o Pietro il Grande).
Si parla dell’Arco di Tito e il figlio di un venditore ambulante e ultras della Lazio salta su ed esclama Aho mi padre m’ha detto che noi romani j’avemo fatto er culo ai giudii, pure lui ‘na vorta ha scazzato con un giudio centurione che je voleva rompe li cojoni perché venneva ciddì farsi davanti ar Colosseo, e per questo noi votamo Palestina (sì, scusate, scusate, ma mi è venuto su due piedi di fare il romano: tra l’altro approfitto per rendervi edotti di un singolare fenomeno di cui forse nemmeno i romani de Roma sono al corrente, ovvero che quei tizi mascherati da centurioni che assaltano i turisti fino almeno a dieci anni fa provenivano quasi tutti dalla comunità ebraica – però anche loro sono stati oggi rimpiazzati dai romeni).
Ecco, probabilmente di fronte a tale situazione le posizioni politiche si ribalterebbero: il sinistroide urlerebbe al fascismo, il destroide si commuoverebbe nel ricordo degli anni verdi e magari preciserebbe che in Curva Nord negli anni ’70 lui sventolava la bandiera di Israele contro i kompagni filoarabi (al che gli ultras insorgerebbero in un circolo di faide interne agli ex-missini istituzionalizzati). Certo, sto portando forse un caso inverosimile persino negli ormai lontanissimi anni ’90, ma in verità esiste uno scenario in cui un aneddoto del genere, mutatis mutandis, potrebbe risultare assolutamente plausibile: mi riferisco alle comunità italiane d’oltreoceano.
Vengo perciò al secondo esempio (in realtà il terzo, ma alla fine comprenderete perché lo ha anticipato rispetto a quello su Voltaire). C’è una scena dalla serie televisiva I Soprano (un ambizioso affresco della mafia italo-americana dai toni macbethiani) dalla prima stagione (episodio 3) dove i mafiosi si trovano al cospetto di un ebreo ortodosso (haredim) che non cede alle richieste di pizzo evocando Masada («Per due anni, 900 ebrei hanno tenuto testa a 15.000 soldati romani. Hanno scelto la morte piuttosto che la schiavitù») e provocando gli affiliati alla cosca con la domanda And the Romans, where are they now?, sentendosi ripetere nettamente You’re looking at them, asshole (non trovo la scena in italiano su Youtube perché il copyright ecc.)
Naturalmente si tratta di fiction, ma conoscendo piuttosto bene l’immaginario statunitense, posso sostenere senza tema di smentita che un bambino italo-americano ancora oggi viene allevato con lo stesso tipo di (folk)lore: la romanitas come mito identitario che si riflette in numerosi ambiti dell’esperienza esistenziale del giovane Nico o Tony, dai nickname sul web ai gagliardetti delle squadre giovanili di basket o football in cui gioca.
Anche qui, dov’è l’antisemitismo? Tutto sommato si tratta solo di un ebreo ortodosso immobiliarista (negli Stati Uniti gli haredim sono particolarmente attivi nel settore) che si affida a dei mafiosi (da lui definiti come un “Golem”) e riceve la risposta che si merita. Alla fine la puntata si risolverà con l’affiliato ebreo di Tony Soprano che gli suggerisce di evirare il suo “confratello fanatico” in modo da farlo andare in panico per l’impossibilità di garantirsi una “abramitica” discendenza (con un inequivocabile sottotesto rimandante all’etnocentrismo delle comunità ebraiche della East Coast, da Newark a New York).
Arriviamo al terzo esempio: l’Illuminismo. Ci troviamo di fronte a un altro tipo di antisemitismo, ispirato al razionalismo settecentesco perfettamente rappresentato dal “padrino” Voltaire, il quale, avendo ben presente cosa fossero gli ebrei della sua epoca (eppure sempre condizionato da motivi storico-culturali), li relegava nella non-storia, per così dire, cioè in quella res nullius del pensiero (a volte apostrofata come “Asia”) dove la Ragione non aveva alcuna ragione (scusate il gioco di parole) di approdare.
Il buon François-Marie Arouet, da perfetto “topo di biblioteca”, trasse pari pari i suoi pregiudizi antigiudaici così all’avanguardia nel XVIII secolo dalle antiche polemiche elleniche, relegando la Judée nell’ambito della barbarie, dell’impensabile, dell’irragionevole, dell’irriducibile: gli stessi identici concetti trasmigreranno in Hegel, cioè nella versione ghei (=tedesca) dell’Illuminismo, e poi nel cattivismo Itle ecc….
Come avrete capito, ho cercato di portarvi tre esempi (in ordine sparso) di come idee antichissime siano trasmigrate da un’epoca all’altra senza necessariamente imbattersi nella cosiddetta “giudeofobia cristiana” (il primo imputato nei processi imbastiti dai soliti “storici di professione”, mentre essa in verità sarebbe l’ultimo “carnefice” in questo infinito stillicidio): l’Antico Egitto e gli odierni immigrati egiziani; gli Antichi Greci e l’illuminismo settecentesco (da cui parte il filosemitismo che vorrebbe censurarci); gli Antichi Romani e le comunità italiane d’oltreoceano.
Veniamo però al “caso di studio” che per le prospettive contemporanee rappresenta l’apice storico dell’antisemitismo: la Germania nazista. Personalmente sono incline a negare che la Shoah sia stato un evento unico (ma ripetibile?) non solo a livello “formale” (con le dovute proporzioni i popoli nomadi della Mongolia, i circassi o gli armeni hanno subito una “pulizia” ben più profonda) ma anche “sostanziale”, nel momento in cui le condizioni che hanno prodotto l’olocausto in Germania si sarebbero potute riprodurre in decine, se non centinaia, di altre località.
Anche in tal caso, la mia tesi della natura composita ed eterogenea dell’antisemitismo è confermata proprio dalla storia tedesca non solo nel periodo pre-nazista ma anche durante lo stesso Terzo Reich. L’avversione agli ebrei di un intellettuale berlinese era radicalmente diversa da quella di un poliziotto di Monaco, ed entrambe condividevano poco con quella del contadino dell’Ostdeutschland.
Il milieu “magico” dal quale proviene in parte anche Adolf Hitler (ma andrebbero condotti studi specifici sulla matrice piuttosto yankee del suo antisemitismo) è quello che affascina di più gli storici, probabilmente perché è utile alla riduzione del nazionalsocialismo a un fenomeno irrazionale e totalmente avulso dalla realtà europea: al contrario però sarebbe più proficuo interrogarsi sul perché il Judenhass trovò terreno fertile nella società tedesca dell’epoca.
Un argomento veramente ostico da affrontare anche da una prospettiva neutrale (perché si rischia letteralmente la galera), al pari dell’usura medievale o della cosiddetta “accusa del sangue”, è quello del livello di criminalità diffuso nella comunità ebraica tedesca. Alla storia è passata solo la propaganda anti-weimariana contro l’ebreo benestante che irride gli “ariani” ridotti alla fame, ma la polemica nazista non si riduceva solo a questo: da una parte, infatti, molti ebrei (in specie gli Ostjuden, che ereditavano una condizione decennale di “immigrati”) vivevano effettivamente di espedienti (furti, borseggi, accattonaggio); dall’altra una vera e propria “mafia ebraica” nelle grandi città gestiva il traffico di stupefacenti, i bordelli e le case da gioco clandestine.
Esiste poi un’altra dimensione, quella politica, che oltrepassava l’ambito prettamente ideologico traducendosi in un’ansia concreta per i comportamenti antisociali che il cosiddetto “giudeo-bolscevismo” ispirava nei suoi militanti. Non è dunque gioco facile ridurre l’antisemitismo di Hitler a un divertissement intellettualistico, anche se è noto che la sua avversione (almeno da quanto egli raccontava) sorse da un percorso decisamente “mediato”, tra mentori pangermanici e opuscoli trovati sulle bancherelle dei mercatini viennesi.
Analizzando la situazione tedesca col senno di poi (che nondimeno riempie le fosse) si può comprendere come l’unico criterio costante per descrivere il fenomeno antisemita sia il rapporto che una data collettività ha con gli ebrei: infatti, se oggi volessimo aizzare il Judenhass tra le folle occidentali, di certo non potremmo ricorrere a opzioni quali il “securitarismo”, la xenofobia, la giudeofobia di stampo teologico, il proibizionismo ecc..
D’altro canto, molti degli argomenti che costituivano l’antisemitismo degli ultimi trecento anni sono passati quasi senza soluzione di continuità nella cosiddetta “islamofobia” (la quale allo stato attuale cementa in un’unica polemica imam pakistani, spacciatori magrebini e sceicchi sauditi, come un tempo collegava il grassatore del ghetto e il rabbino ortodosso sfuggito a un pogrom in Moravia all’immobiliarista weimariano).
In aggiunta, la presenza di uno Stato ebraico, un unicum nella storia degli ultimi millenni, rende totalmente sterile qualsiasi richiamo a un “antisemitismo eterno”, la cui natura evidentemente ha a che fare con lo status effettivo del popolo ebraico. Eppure anche tale considerazione, all’apparenza pacifica, potrebbe risultare suscettibile di “antisemitismo” nel momento in cui stabilisse un collegamento diretto con il soggetto concreto dell’avversione, cioè l’ebreo. L’antisemitismo deve perdersi nelle nebbie del delirio, esser ridotto a un’espressione di odio insensato, nonché psicanalizzato, decostruito o semplicemente censurato.