Claudio Tito, corrispondente da Bruxelles per “Repubblica”, ha appena vergato l’ultimo allucinante “manifesto” sull’Europa-Nazione, Nazione Europa (Piemme, 2024), dove si teorizza la necessità di creare un super-stato continentale in base alla “politica della crisi” preannunciata da Jean Monnet.
Se “Europa-Nazione” era uno storico slogan dell’estrema destra, a quanto pare invertendo l’ordine dei fattori ciò che ne viene fuori è un concetto più puro e dolciastro (oserei direi “petaloso”, senza ovviamente dimenticare la giusta dose di gesti scaramantici, che servirà del resto durante l’intera trattazione): la Nazione Europa che per l’appunto si appropria di un certo armamentario ideologia sciovinista (o “sovranista”, come si dice oggi) e diventa la patria dell’uomo universale. O forse sarebbe meglio dire della Donna Universale? No, nemmeno questo, perché se cominciano a definire nella maniera più vaga possibile i generi rischiamo di uscire già con un piede dalla nostra fluidissima (altro che “società liquida”!) Patria Europa (Matria? She/Her-atria?).
L’iter del -presunto- percorso di unificazione europea tracciate da Tito (Claudio, non Josip Broz, eh) rappresenta un cammino lugubre e desolante: si parte dalla pandemia come “rinuncia alla sovranità sanitaria” con una disdicevole lisciata a Ursula von der Leyen (se questo è un giornalista: nemmeno una parola sulla totale assenza di trasparenza riguardo ai contratti per i vaccini) e si va, naturalmente, alla questione della guerra in Ucraina, con i toni che potete immaginare.
Una “narrazione” rigidamente deterministica, dove qualsiasi evento nazionale e internazionale viene inquadrato nella categoria dell’irreversibilità. In particolare, l’enfasi sulle disgrazie come peste, guerra e carestia (si elogia anche un’immaginaria “condivisione dei beni” in materia di spesa sanitaria e bellica, con elogio a corredo dei vari NextGeneration, Recovery Fund ecc…), sembra quasi rappresentare il volere inconscio di trasformare l’europeizzazione in un sinonimo di “sfiga”.
Lo stesso Tito riconosce che l’eventualità di incardinare l’integrazione in una prospettiva di “necessità” e mai di “scelta” (se non “scelta obbligata”), potrebbe comportare un minimo di scetticismo, ma non per questo dobbiamo perdere anche solo un minuto a ipotizzare scenari alternativi in cui i popoli si uniscono per una volontà comune e non perché
Fate Prestoooooooh…
È da un po’ di tempo, in effetti, che quando vedo il vessillo blu-stellato mi viene spontaneo portarmi la mano ai coglioni: ora ho qui nero su bianco la conferma che se non ci sono sfighe, non c’è Europa. Le “crisi” diventano l’unico motore atto a far funzionare un meccanismo che manterrà inevitabilmente tale forma anche nello scenario -ormai utopico!- delle “vacche grasse”: non sia mai presentare l’Unione Europea come un progetto positivo e desiderabile a prescindere dalle emergenze!
Più che un dibattito politico, qui servirebbe una psicanalisi di massa per gli europeisti. Se non altro, da queste testimonianze si può capire come il delirio attuale di Parigi, Berlino e Londra (ma la Brexit?) che vorrebbero combattere contro i mulini a vento russi (mentre Washington si sfila), sorga dal “sonno della ragione” di quegli intellettuali che violentano la realtà in nome dell’utopia del momento (quantomeno una volta Leningrado era più distante da Roma di Bruxelles).
Senza nemmeno accorgersene, gli europeisti hanno messo in piedi un sistema apotropaico di tutto rispetto, che sta conferendo ai vecchi nazionalismi un carattere “talismanico”, dove all’ossessione per la crisi come “unica via” si risponde istituendo uno scaramantico limes contro la ritualizzazione della “risposta comunitaria” (o “Azione Paraella” per i dotti). Buona Fortuna, Europa!
Non è sfiga se tutte le sventure che hai elencato e tante altre vengono organizzate ed inflitte di proposito. Il fine è sempre lo stesso…