Petroleum non dat panem. Della guerra al latino

La battaglia sull’insegnamento del latino nelle scuole deriva dall’ormai secolare polemica contro il famigerato “modello dualistico”, che avrebbe improntato lo sviluppo dell’istruzione nel nostro Paese dagli albori.

In principio fu infatti la Legge Casati (1859), a rispondere sia alle esigenze ideali (e materiali) della borghesia liberale “levatrice” d’Italia, sia alla domanda di istruzione richiesta dal lento sviluppo industriale della nazione.
Poi venne la riforma Gentile, che trasformò le esigenze dell’epoca passata in ideologia, estremizzando i due poli dell’asse formativo: da una parte studi umanistici per la classe dirigente (una scuola che, secondo le stesse parole del filosofo, «non prepara direttamente alla vita») e dall’altra l’avviamento professionale per le “api operaie”.

Nonostante la riforma possedesse robuste basi filosofiche, le contraddizioni imposte dall’industrializzazione fecero saltare in breve tempo tutti gli schemi. La necessità di una nuova riforma trovò come vittima sacrificale proprio il latino, in quanto rappresentante di quella “cultura evasiva” che faceva storcere il naso a una classe intellettuale riconvertitasi prontamente al marxismo. In realtà ci furono anche voci da sinistra che si opposero alla cosiddetta “scuola media unificata”, ma in generale prevalse la linea dello “svecchiamento” in nome di una cultura “concreta” e “realistica”.

Il più radicale oppositore dell’insegnamento del latino fu il filosofo e senatore comunista Antonio Banfi, che chiamò alla “crociata” con un articolo-manifesto pubblicato da “l’Unità” (L’elemosina del latino, 9 dicembre 1945), in risposta al latinista Concetto Marchesi (anche lui marxista), che aveva difeso la disciplina in un’intervista pubblicata nelle stesse pagine:

«[…] Tre o quattro anni di latino per tutti, dice Concetto Marchesi. È un insegnamento non utilitario, non tecnico, puramente umanistico e formativo. Sarebbe ingiusto privarne quanti dovranno poi assorbirsi negli studi tecnico-professionali rinunciando per sempre a tanto libero respiro.
Parliamoci proprio chiaro. In tre o quattro anni […] l’insegnamento del latino non può dar frutti se non di noia e di svogliatezza. Rientra in quel tipo di insegnamenti inutili che non concludono nulla, non impegnano sul serio la mente del giovane, sfumano in nozioni vaghe, non fissate da un uso concreto e fecondo, prive di presa sulla realtà, di cui è ormai piena la nostra scuola da quando ha perduto il senso di un suo reale compito istruttivo e di una sua vivente funzione sociale. In una scuola ove questo compito e questa funzione risorgano […] tutto deve essere preciso, concreto, attivo, efficace, così che cessi l’inerzia faticosa di uno studio che empie la mente di cose inservibili e si gloria di tale vacuità ed indeterminatezza come di una cultura raffinata.
[…] Troverei piuttosto ingiusto ed assurdo affliggere la maggioranza dei nostri ragazzi, che hanno tanto bisogno di concretezza mentale, di senso della realtà, di sapere attivo, con un insegnamento inutile, senza sviluppo e continuità, per la sola ragione che una piccola minoranza dei loro compagni lo vorranno poi continuare. Si tolga piuttosto dalla scuola media unica questo studio, lo si sostituisca con studi più vivi e sarà tanto di guadagno, anche  per i ginnasiali, che resi più maturi, più aperti e più attivi, in quattro o cinque anni, senza pigrizia, apprenderanno più latino di quello che non facciano ora immaturi e svogliati in otto.
[…] [Bisogna] capire che l’insegnamento del latino valeva come definizione di una struttura esemplare dello spirito obbiettivo, del linguaggio, del costume, del morale, del sapere. Attraverso quale lento e complesso processo di riflessione questa “classicità”, questa esemplarità di cultura si sia sviluppata non è qui certo il luogo neppure di accennare. Ma essa deriva certamente da un’idea della cultura come sfera di un’ideale soluzione dei problemi della vita, fuori della vita stessa, dove la lingua non è l’umano conversare, ma la forma strutturale della letteratura e dell’oratoria, la storia di una successione di modelli tipici d’umanità, la morale di un organismo di pure virtù, l’arte un armonico realizzarsi di canoni, il pensiero un’eterna saggezza. Ed è cultura ormai riflessa, di evasione pedagogica, propria di una classe privilegiata che in essa giustifica la sua inerzia sociale e sfugge alle sue responsabilità.
Da qualche secolo essa non è più la cultura dell’uomo moderno, che è coscienza dei problemi della vita, anzi, vita che riconosce i suoi problemi e se ne fa luce e calore. Perciò, contro l’uomo moderno, il gesuitismo l’ha ripresa e noi viviamo ancora alla sua ombra; perciò essa ha ancor oggi la sua sede in Università, come quella di Oxford, che nutrono e preparano i ceti privilegiati che s’illudono d’essere la classe dirigente del mondo.
La cultura moderna è cultura di ricerca e non di contemplazione, di creazione e non di esemplarità; il suo criterio non è un modello ideale, ma una legge di vita, giacché essa dalla vita nasce e alla vita ritorna. Quella aperta, dinamica, realistica coscienza culturale è coscienza storica, ma di una storia che si fa, che riflette su di sé e si riversa in attività tecnicamente esperta verso il futuro. È la coscienza di cui il marxismo è la realizzazione più concreta, che culmina in esso come sua forma di piena universalità e di massima efficacia. È cultura non di un’élite di distacco e d’evasione, ma delle forze socialmente attive nella loro comunità sociale.
[…] Siamo forse andati troppo lontani, ma per chi ci ha seguito, il donare al futuro tecnico un pezzo di classicità, è un’elemosina inutile. Egli chiede la coscienza della sua tecnicità, del suo lavoro in quanto umano, nella storia degli uomini, nel mondo della realtà; chiede questa cultura che è senso universale della sua vita. E io temo che solo lo sfaccendato, che non ha nulla da fare nel mondo, possa desiderare una diversa cultura.
Conclusione? Nessuno nega la bellezza degli studi classici, come coscienza di un periodo della storia e di un momento dello spirito umano. Ma l’esperimento didattico e il sapere storico che nel marxismo si illumina ci rivelano ch’essi non sono più pedagogicamente attuali, poiché essi rappresentano una cultura astratta di una classe in declino, mentre urge attorno a noi tutta una vita nuova che non può, alla cinese, comprimersi nelle forme di due millenni addietro. Proposte concrete per dar vita scolastica al nuovo umanismo? Molte se ne possono fare, ma per ora è necessario che ne sia sentito come impellente il problema, problema essenziale di civiltà, e non lo si nasconda nelle mitiche nebbie nostalgiche di un paradiso perduto».

La “Rivista di studi crociani” (Vol. 2/1965) rinfocolò la polemica definendo Banfi «un pigmeo, gnomo e coboldo della neopedagogia populista». Tuttavia, qualche anno dopo, lo stesso Marchesi rivedrà clamorosamente la sua posizione con un mea culpa nei confronti del collega: «Allora intendevo soltanto proporre la grammatica di una lingua morta quale strumento più adatto di qualsiasi lingua viva alla formazione mentale dell’alunno. La esperienza di non pochi anni ci dice che questo è un pronostico fallito; che lo studio del latino è un inutile tormento e perciò un insensato perditempo. M’inchino all’evidenza e recito il mio atto di contrizione» (Il latino nella scuola, “Riforma della scuola”, n.1, gennaio 1955, p. 6).

La battaglia trovò una sponda persino nella Chiesa cattolica: «In Vaticano spirava aria nuova, e cauti sondaggi avevano accertato anche forze importanti gravitanti intorno a papa Giovanni non erano propense a difendere il latino nella scuola media anche a costo di rilevanti conseguenze» (T. Codignola, “La guerra dei trent’anni. Come è nata la scuola media in Italia”, in La scuola italiana dal 1945 al 1983, cur. M. Gattullo – A. Visalberghi, La Nuova Italia, Firenze 1986, p. 129).

La polemica si chiuse temporaneamente col solito compromesso a ribasso, anche se col senno di poi si constata che, almeno a livello culturale, sono le argomentazioni di Banfi (Antonio) ad aver trionfato: una volta passata la moda marxista, esse sono riemerse con un taglio più tecnocratico (se non apertamente relativista).
Ora non è più il latino a essere una “elemosina inutile”, ma qualsiasi materia che non possa essere insegnata secondo gli ultimi ritrovati della tecnica. Emblematiche di tale tendenza sono le parole con cui il pedagogista Roberto Maragliano (uno degli ispiratori della riforma Berlinguer) suggerì l’introduzione dei videogiochi nelle scuole (La scuola ora si metta in gioco, “l’Unità”, 5 febbraio 1997): «Il videogioco è la più grande rivoluzione epistemologica di questo secolo. Ti dà una scioltezza, una densità, una percezione delle situazioni e delle operazioni che puoi fare al loro interno che permette di esaltare dimensioni dell’intelligenza e dello stare al mondo finora sacrificate dalla cultura astratta. Lei preferisce che un pilota d’aereo abbia fatto videogiochi o che abbia letto la Divina Commedia?».

Alla Riforma Berlinguer (che in realtà non ha lasciato che un labile segno, peraltro solo a livello burocratico-amministrativo), si oppose il fisico e filologo Lucio Russo, che nel celebre libello Segmenti e bastoncini (Feltrinelli, 2000) denunciò quella che ai suoi occhi appariva come una demolizione controllata della scuola italiana. Questo testo peraltro contiene argomentazioni molto concrete a favore dell’insegnamento del latino, come il pericolo di deterioramento degli antichi manoscritti custoditi dalle nostre biblioteche ed università (uno dei patrimoni più consistenti al mondo) a causa della mancanza di progetti di classificazione e, soprattutto, di personale adatto: «Il riservare la conoscenza [del latino], anche in Italia, a un piccolo gruppo di specialisti, analogo a quello attuale degli assirologi, porterebbe a compimento una frattura culturale senza precedenti, oggi già in corso di attuazione in buona parte del mondo occidentale, e dalle conseguenze di enorme portata» (p. 111).

Secondo Russo, in Italia l’insegnamento del latino si è “salvato” grazie all’inefficienza e al lassismo delle istituzioni, che si sono dimostrate parimenti incapaci sia di costruire la “nuova” scuola che di demolire quella “vecchia”.
Oggi tuttavia il destino della disciplina sembra segnato, nonostante diverse iniziative dimostrino un ritrovato interesse per essa anche da parte dei giovani. Sarebbe paradossale se, una volta scacciato dalle aule, il latino si prendesse la rivincita attraverso i nuovi mezzi di comunicazione. Non è però un esito scontato; al contrario qui si corre il rischio di veder la lingua soccombere con le parole che il capitano Ferrucci rivolse a Maramaldo.

Sarebbe forse necessario un “accordo bipartisan” per la salvaguardia dello studio, soprattutto oggi che gli schieramenti sembrano ribaltati, e a una sinistra che vuole mantenerlo (anche per conservatorismo, perché no) corrisponde una destra che sogna di rimpiazzarlo con i mitocondri.
In primo luogo si potrebbero trovare delle giustificazioni in sua difesa più forti che non le esigenze dell’industria turistica (c’è chi suggerisce di studiare solo epigrafia…), dell’identità politica (come l’ebraico per Israele) o addirittura religiosa (il latino come emblema dell’età dell’oro del cattolicesimo), che, per quanto nobili, caricano la materia di responsabilità eccessive.

In Italia gli efficientisti, i riformatori e i tecnocrati non fanno che ripetere che “La cultura è il nostro petrolio”. Da quando l’immagine (sgradevole) dei “giacimenti culturali” si è trasformata in ossessione di massa, il decadimento dell’intelligenza è divenuto inarrestabile. Una situazione sulla quale la sapienza latina avrebbe trovato di che ironizzare: Petroleum non dat panem! In fondo basterebbe anche solo una piccola congiura delle intelligenze contro la solita confederacy of dunces

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