Il Pizzagate e l’immaginario americano

Il famigerato Pizzagate è probabilmente la “teoria del complotto” più fantasmagorica del momento: la Fondazione Clinton, con l’appoggio dei fratelli Podesta (due lobbisti legati a Hillary), avrebbe organizzato un traffico internazionale di minori avendo come base… una pizzeria di Washington.

Durante la campagna elettorale americana l’attenzione sullo “scandalo” ha raggiunto i picchi massimi, per poi scemare anche a seguito dell’impresa di uno squilibrato che a dicembre del 2016 decise di “investigare” sparando qualche colpo di fucile nel locale, fortunatamente senza ferire nessuno (ovviamente per i complottisti si è trattato di un false flag per insabbiare lo scandalo).

Personalmente mi ero interessato al caso solo per l’incredibile interesse suscitato nella stampa turca, tuttavia negli ultimi giorni ci sono tornato, complice soprattutto una fastidiosissima infezione intestinale che mi ha inchiodato a letto. Dato che ho già letto tutta la RechercheMoby Dick e Cuore, cosa c’è di meglio che non spararsi video complottisti a raffica fino a quando non si va fuori di testa e la paranoia combinata all’effetto dei medicinali consente finalmente di cadere in deliquio?

Comunque, ho visto tutto quello che c’era da vedere (ai lettori interessati ad approfondire consiglio la ricostruzione in italiano qui sotto, senza dubbio la più completa), e ho tratto qualche conclusione, chiaramente partendo dal presupposto che questa storia sia una bufala colossale.

La prima è che effettivamente i Podesta sono troppo potenti per essere “al di sopra di ogni sospetto”. Il fratello più giovane, John, oltre a esser stato Capo di gabinetto della Casa Bianca durante la presidenza Clinton e Presidente della campagna elettorale di Hillary, ha addirittura tentato di organizzare una “rivoluzione” in Vaticano su modello delle “primavere arabe” (mica c’è riuscito, tranquilli!).

Il maggiore dei Podesta, Tony, anch’egli lobbista di fiducia (anzi superlobbyist) dei democratici e a Washington, è considerato una sorta di arbiter elegantiae: la sua casa viene paragonata dalla grande stampa a un museo privato, nonostante i gusti alquanto “controversi” (questa è uno dei punti che ha eccitato le fantasie dei complottisti).

Venendo al nocciolo, penso che i media abbiano dedicato scarsa attenzione alle email dei Podesta pubblicate da Wikileaks: è un atteggiamento che difficilmente si può considerare onesto, pensando soprattutto al caos ora sollevato per l’altrettanto fantomatico Russiagate.

In particolare, è evidente che in alcuni messaggi i fratelli stiano usando un codice (a meno di non pensare che usino la parola “pizza” a caso perché sono di origine italiana): da qui a dedurre che stiano parlando di violentare bambini ce ne passa, però un qualche interessamento forse non guasterebbe, soprattutto in un periodo in cui si tende a distinguere tra “complottismi” buoni (anti-Trump) e cattivi (anti-Clinton).

La seconda conclusione riguarda il proprietario della pizzeria, tale James Alefantis. Gli “sbufalatori” hanno avuto buon gioco nell’evidenziare l’assurdità di credere che un locale in cui si gioca a ping pong mentre si aspetta da mangiare sia al centro di un traffico internazionale di bambini. Il che è sicuramente vero; tuttavia non stiamo parlando di una pizzeria qualsiasi: pur essendo un posto piuttosto mediocre, sporco, rumoroso, con le piastrelle divelte e le pareti scarabocchiate e piene di buchi (negli ultimi tempi alcuni youtuber hanno fatto diverse incursioni con telecamere nascoste, vedi per esempio qui e qui), è comunque considerato al di sopra della media, proprio per gli agganci che il titolare ha con i pezzi grossi del Partito Democratico.

Lo stesso Alefantis è una figura decisamente ambigua: da una parte, è il classico “gay istituzionale”, che ha avuto tra i suoi fidanzati ufficiale David Brock (uno dei giornalisti più vicini a Hillary, descritto come una sorta di “crociato clintoniano”) e che ama presentarsi come il gestore un po’ eccentrico di un “locale per famiglie”; dall’altra parte però costui sembra attratto da quel sottobosco orgiastico che faceva parte della cultura omosessuale prima che la monogamia diventasse uno dei suoi dogmi: come è emerso dal suo profilo Instagram (scandagliato in tutti i modi finché non lo ha reso privato), il pizzaiolo preferito dai Podesta apprezzava foto di uomini truccati ricoperti di sangue, fotomontaggi da film pornografici gay con una pizza al posto dei genitali e tante altre amenità. Roba che alla fine non scandalizzerebbe più di tanto nemmeno il pubblico italiano, dopo anni di programmi pomeridiani destinati a rimodellare standard e tabù; decisamente meno accettabili, però, le battutine sulla pedofilia, che hanno contributo ad amplificare le paranoie: sì, tale Alefantis postava su Instagram foto di bambini e faceva allusioni sessuali su di esse.

Tale sgradevole evenienza ci conduce alla terza conclusione, la più importante: Alefantis, nonostante i suoi intrallazzi, nonostante fosse culo e camicia (no pun intended) con i Clinton e i Podesta, nonostante le riviste lo considerassero una delle persone più influenti di Washington, credeva di essere ancora underground. Tanto da aver organizzato, dietro al “locale per famiglie”, una backroom (il “retrobottega”) dove far esibire gruppi di musica sperimentale: un posto che in Italia sarebbe considerato al di sotto del livello di un centro sociale, ma che a Washington diventa affascinante e alternativo. Il problema è che (come potete apprendere dal video segnalato all’inizio) sul “retro” suonavano artisti che, credendosi anch’essi underground, scherzavano un po’ troppo sulla pedofilia. Nei filmati si può vedere un/a tizia/o col passamontagna rosso e la voce distorta che fa battutine sulle “preferenze” sessuali, la quale compare anche in video musicali con immagini di bambini torturati e uccisi; un altro gruppo poi sfoggia uno dei presunti “simboli dei pedofili” (la spirale a forma di triangolo) evidentemente sempre allo scopo di épater le bourgeois.

Non è peraltro inusuale, per un certo tipo di sottocultura, l’atteggiamento “goliardico” nei confronti della pedofilia. I motivi sono piuttosto evidenti: dal momento che non rimangono più molti tabù da infrangere, perché l’omosessualità è diventata una virtù, la pornografia è roba da seconda serata (a volte anche da prima), il cannibalismo è stato sdoganato nei reality show e persino l’omicidio ha goduto della spettacolarizzazione dei serial killer, una delle poche cose ancora in grado di sbigottire resta proprio la pedofilia. Ecco perché, quando i complottisti hanno individuato il bersaglio nei gruppi che suonavano sul retro della pizzeria, non han dovuto far altro che cogliere fior da fiore…

Lo stesso discorso vale per gli artisti indirettamente coinvolti dal fatto che le loro opere siano appese alle pareti di casa Podesta: in particolare la pittrice serba Biljana Đurđević, che pur non meritando ancora una pagina Wikipedia, in compenso ha avuto il privilegio di apparire sulla “Pizzagate Wiki” (ora offline) per i suoi ritratti di bimbi appesi che tanto piacciono al lobbista clintoniano.

E, soprattutto, Marina Abramović, una delle protagoniste più prestigiose dell’affaire: se fin qui ho evitato accuratamente di nominarla, è perché il mio livello di Schadenfreude avrebbe superato il buon gusto. Ammetto infatti di aver goduto nel vedere questa faccendona tenuta in palmo di mano dal gotha, trasformarsi in una sacerdotessa lesbo-satanica a capo di una cricca internazionale di pedofili e assassini (della faccenda del cosiddetto Spirit Cooking avevamo già discusso a suo tempo). Mi ha anche divertito il fatto che la Abramović sia uscita di testa, reagendo come tutti quelli coinvolti nel complotto immaginario (“Stavo solo scherzando”).

Sarò limitato, ma non riesco a capire quelli che passano la vita a “provocare” e poi, una volta che il pubblico li prende finalmente sul serio, corrono a piangere da giornalisti e avvocati. Ci troviamo di fronte a un fenomeno curioso, perché sembra che gli iconoclasti vogliano esser considerati tali solo dal “potere costituito”, dall’“istituzione”: perciò passano il tempo ad aspettare una reazione “dall’alto” (con la consapevolezza che non arriverà mai); quando però invece questa si presenta “dal basso”, restano completamente spiazzati. Come a dire: dopo una vita passata a combattere la “destra religiosa” o roba del genere, a farti chiudere i battenti è il complottista della porta accanto.

In generale è una situazione imbarazzante, anche perché il provocateur in fondo è convinto di agire per il bene dell’umanità, dato che pensa che qualsiasi convenzione sociale sia una creazione del patriarcato o dei preti. Poi un bel giorno sbatte contro il senso comune che è altra cosa rispetto al buon senso, ma è una forza con la bisogna sempre fare i conti: probabilmente d’ora in avanti sarà costretta a farli anche la povera Marina, alla quale forse non resta che tornare a esibirsi coi suoi amici bulgari come ai bei tempi.

Tutto ciò assomiglia a una specie di contrappasso: non posso dire che sia meritato, però l’atteggiamento di fingersi underground e al contempo trescare con le sfere più alte dell’establishment mi pare abbia fatto il suo tempo. Per certi versi, tutto ciò potrebbe rappresentare una “apocalisse” delle sottoculture, l’estinguersi della contraddizione che appunto consente a certi “stili di vita” di considerarsi alternativi nonostante non lo siano più da tempo. Andy Warhol sosteneva che “non c’è migliore pubblicità della cattiva pubblicità”, ma in tal caso è evidente che gli artisti coinvolti avrebbero preferito rimanere nel loro orticello di perversioni e provocazioni, piuttosto che “emergere” come complici di un’immaginaria gang di pedofili. Tanto che nessuno di loro ha poi fatto nulla per alimentare le ambiguità sul falso scandalo; eppure oggi sono finalmente “famosi”, nel senso che sono tutti registrati negli schedari dei complottisti e i loro video hanno fatto il pieno di visualizzazioni (e di commenti negativi).

Il senso comune ha dunque consumato la sua vendetta: esso è una feroce forza che il mondo possiede, e con la quale non si può mai smettere di fare i conti (neppure nel proprio retrobottega).

Infine, vorrei concludere con qualche appunto sulle circostanze politiche e mediatiche in cui è potuta prosperare una leggenda di tal fatta.

Partiamo dallo scorso febbraio, quando il grande James Woods (ora diventato ultra-conservatore), ha iniziato a prendere di mira John Podesta proprio sul Pizzagate. In un suo tweet ha addirittura chiamato in causa il presunto “linguaggio cifrato” che i due fratelli Podesta avrebbero utilizzare per gestire il traffico di minori dal retro di una pizzeria (peraltro citando una delle email più “innocue”, dove Podesta sta parlando proprio di… spaghetti alle noci, an amazing Ligurian dish).

Ciò che stupisce è che nel 1995 lo stesso Woods recitò in un film per la tv sul celebre “caso McMartin”, una vicenda di isteria collettiva che coinvolse i gestori di un asilo privato accusati di violenze di gruppo sui bambini. La cosiddetta “isteria sugli abusi negli asili” (day-care sex-abuse hysteria) fu in effetti un fenomeno molto diffuso nella società americana tra gli anni ’80 e i ’90 del secolo scorso: esso peraltro rientra nella più ampia Satanic ritual abuse hysteria, in cui appunto confluisce anche il Pizzagate.

Sicuramente esistono migliaia di studi sull’argomento, ma anche dalla prospettiva di osservatore superficiale e piuttosto disinteressato nei confronti del cosiddetto “complottismo” (pure per le sue implicazioni culturali, psicologiche o sociologiche), posso dire di essermi imbattuto decine di volte nel cosiddetto élite pedophile ring. È un’accusa che, per motivi intuibili, risulta particolarmente efficace per demolire il proprio avversario: ricordo che durante la presidenza di Bush Sr. divenne una sorta di leitmotiv, tanto che nel dicembre del 1991 una rivista australiana arrivò ad accusare l’allora Presidente americano di essere il “leader mondiale dei pedofili” [the world’s leading child molester]; più recentemente, la famigerata spia-dissidente Litvinenko ha affermato di possedere fotografie di Putin mentre violenta una bambina.

A volte purtroppo queste “leggende” si rivelano fondate: per esempio, i sospetti sul lassismo delle autorità belghe nell’affrontare il caso Dutroux, si sono dimostrati legittimi una volta emerse le coperture ad altissimi livelli; oppure il terribile scandalo che ha coinvolto due dei volti più noti della BBC, i quotatissimi presentatori Jimmy Saville e Stuart Hall. E, per rimanere nel Regno Unito, l’affaire che ha investito addirittura l’intero Parlamento britannico, in occasione del quale si era parlato di una vera e propria lobby dei pedofili (peccato che poi la stampa abbia smesso di interessarsene).

Tornando negli Stati Uniti, ultimamente stanno affiorando incessanti rivelazioni sull’“epidemia” di pedofilia che affligge da sempre Hollywood: si veda il documentario An Open Secret (2014), nel quale si dimostra come i molestatori di ragazzini nell’industria dello spettacolo siano protetti da una diffusa omertà. Quando, per esempio, si scopre che uno dei protagonisti di un programma televisivo per bambini è un pedofilo, la prassi è quella di pagare le vittime per il loro silenzio e poi “spostarlo” da altre parti (vedi il caso, purtroppo non isolato, di Brian Peck).

Insomma, non è solo perché siamo tutti svitati che le leggende metropolitane si trasformano in isterie collettive: sembra che nelle “sfere alte” la pedofilia sia come minimo considerata un “peccato veniale”, da insabbiare senza remore di alcun tipo (stendiamo un velo pietoso su quanto accaduto all’interno della Chiesa cattolica, anche da quando c’è un Papa “simpatico” si è smesso di parlarne; tuttavia è un peccato che i media non abbiano dirottato l’attenzione su altri ambiti, come appunto lo spettacolo, oppure lo sport, l’associazionismo eccetera…).

Per restare sul Pizzagate, era prevedibile che queste accuse finissero per coinvolgere anche i Clinton, non soltanto per l’evidente incapacità del vecchio Bill di controllarsi. Ci sono un paio di “affari” nei quali Hillary Clinton si è di recente trovata in mezzo, che ovviamente sono stati ingigantiti dalla campagna elettorale.

Il primo riguarda le fondazioni a lei indirettamente legate che hanno cominciato a operare ad Haiti dopo il terremoto: parliamo in particolare di un gruppo di missionari battisti che è finito sotto processo nel 2010 per aver sottratto trentatré bambini haitiani ai propri genitori. La leader del gruppo, Laura Silsby, nonostante avesse promesso di condurli in un orfanotrofio ancora da costruire, venne comunque scagionata su interessamento dell’allora Segretario di Stato (la Clinton, ça va sans dire): in pratica avrebbe rapito i fanciulli in “buona fede”, cioè credendo che lontano dal loro Paese devastato avrebbero avuto una vita migliore.

Un altro “caso” che ha fatto da sottofondo ai mesi convulsi delle elezioni riguarda Anthony Weiner, il marito dell’assistente della Clinton (l’onnipresente Huma Abedin), il cui passatempo preferito era quello di inviare messaggi e foto imbarazzanti a qualsiasi donna gli capitasse a tiro (compresa una quindicenne): la vicenda è stata ridotta a gossip, ma se Weiner non avesse patteggiato avrebbe rischiato un processo per pedopornografia.

Inevitabile che tutto ciò si condensasse in una “narrativa” coerente e spendibile a livello elettorale. A questo punto dovremmo interrogarci sul ruolo di Donald Trump: è corretto affermare che il candidato repubblicano ha cavalcato l’onda del Pizzagate?

Dal momento che non ne ha mai fatto menzione, la risposta dovrebbe essere senza dubbio negativa. Ciò nonostante, qualcuno ha creduto di individuarne un’allusione in una battuta fatta durante il famoso Al Smith Dinner, il pranzo di beneficenza dove i candidati si punzecchiano a vicenda: Trump, evocando il titolo di una biografia della Clinton, It Takes a Village (che richiama quel famoso motto pseudo-africano, “Per crescere un bambino ci vuole villaggio”), ha affermato che la Clinton giù ad Haiti ne ha “presi molti” di quei villaggi (she’s taken a number of them), giocando sull’ambivalenza del verbo to take. In questo caso sembra pacifico che il repubblicano si stesse riferendo alla poco accurata gestione dei fondi per la ricostruzione dell’isola (che la Clinton ha perlopiù dirottato verso le imprese del fratello, Tony Rodham). Certo, se poi i complottisti sfoderano un filmato in cui Hillary passeggia per le vie di Haiti nientedimeno che con… George Soros, allora la “pizza” è servita.

Per chiudere sempre con Trump, un dato interessante (ma come al solito trascurato) è il fatto che egli abbia voluto immediatamente “consacrare” la sua presidenza al contrasto al traffico di minori. Così infatti ha proclamato non appena insediatosi alla Casa Bianca: «La mia amministrazione si concentrerà sulla lotta all’odioso crimine del traffico di esseri umani, […] che negli ultimi anni negli Stati Uniti ha raggiunto livelli “epidemici”».

I sostenitori di Trump ovviamente ne hanno tratto una “narrativa” adeguata nella prospettiva dei numerosi arresti verificatesi negli ultimi mesi (vedi “Sputnik”: While Mainstream Media obsesses over Russia, Trump’s FBI out catching pedophiles), estendendo l’influenza del loro paladino anche a livello internazionale. Il Presidente americano sarebbe quindi ora il leader di una crociata anti-pedofilia che va dal Giappone al Ghana fino all’immancabile Haiti, dove nel febbraio scorso è stata sventata una tratta di ragazzine, peraltro pochi giorni prima che la Clinton Foundation lasciasse definitivamente l’isola: tempismo infelice (sempre dal punto di vista dell’immaginario, s’intende).

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