Nell’ultimo periodo, mi sono imbattuto sui social (da me frequentati rigorosamente in veste di spettatore) in testimonianze sempre più numerose da parte di cosiddetti “bambini prodigio” diventati da grandi dei “perfetti cretini” (senza offesa, è solo per la rima). Si tratta di un argomento sul quale mi sono interrogato varie volte seppur in maniera piuttosto estemporanea: forse è venuto il momento di scrivere qualcosa di serio.
Ne voglio parlare, in primo luogo, perché di solito i miei racconti autobiografici suscitano la generosità dei lettori, che sanno sempre intervenire nel momento del bisogno senza che io abbia ad elencare chissà quali spese o debiti (comunque sono piuttosto impicciato e se potete mandare qualcosa a un povero servo del Signore tutto vi risornerà prima o dopo).
Al di là però dei risvolti pateticamente evenemenziali, il vero spunto sono le -giustissime- considerazioni di un lettore, che in un commento si è detto stupito della complessità di un testo che io sostengo di aver scritto a undici anni. Non ho intenzione di discutere sulle mie vere o presunte capacità di enfant prodige, ma solo precisare che ai tempi credevo di poter raggiungere le vette più alte del pensiero limitandomi ad assecondare la naturale inclinazione della mia anima verso il sapere, l’arte e la poesia. Ok, questa è forse la frase più ghei che sia mai apparsa su questo blog.
Ricordo, per rimanere in ambito di lirica e solo a titolo d’esempio, che già a undici anni avevo teorizzato una mia estetica personale, il preterintenzionalismo, ispirato alla definizione di “preterintenzionale” che ero andato a cercarmi sul vocabolario (parliamo della seconda metà degli anni ’90 del secolo scorso…) dopo che il telegiornale della sera prima si era lungamente diffuso su un triste caso di cronaca (del quale non ricordo alcunché).
Mi pareva che l’idea di un omicidio compiuto in maniera non del tutto volontaria si abbinasse bene al mio concetto di poesia, peraltro direttamente derivato dai suggerimenti di un compagno di classe straniero (di origine balcanica) che sosteneva che la poesia non fosse che un insieme a caso di parole da poter facilmente assemblare aprendo una pagina qualsiasi di un libro di testo di qualsivoglia materia.
Per dimostrarmelo, aprì seduta stante il manuale di italiano e gli capitò prima una pagina del Boccaccio (obiettivamente incomprensibile non solo per uno straniero di dodici anni appena giunto in Italia), poi una prosa del Da Vinci (criptica anche per un madrelingua) e, infine, il colpo di grazia: i passaggi più intensi di Zang tumb tumb di Filippo Tommaso Marinetti (pan di qua paack di là cing buuum cing ciak ciaciaciaciaciaak su giù là là intorno in alto attenzione sulla testa ciaack bello Vampe vampe vampe vampe vampe vampe vampe). Nonostante egli si arrese all’istante, io volli al contrario recepire le sue istanze provando a fare “poesia preterintenzionale”, con il risultato di veder pubblicato un mio componimento su una mesta antologia scolastica.
Anni dopo, e intendo dire anni e anni dopo, verso i trenta, tentai di recuperare l’etichetta di “preterintenzionalismo” affibbiandola all’incolpevole Pasquale Panella, autore scelto non a caso in quanto nella mia mente legato indissolubilmente a quel periodo, nel quale era ancora viva la polemica sulla “decostruzione” di Lucio Battisti culminata in un vortice di insulti, dileggi e risatine che ha sicuramente avvelenato gli ultimi anni dell’artista:. Chiedo venia se mi autocito, non accadrà più:
«Panella è un preterintenzionalista. Lasciando da parte eventuali risvolti giuridici, ciò a cui mi riferisco è una sorta di surrealismo o dadaismo o ermetismo dal taglio umanistico, nel senso che nel realizzarsi pone al contempo la necessità di essere interpretato e compreso. A differenza dell’art pour l’art, il preterintenzionalismo ha dunque uno scopo: suscitare una richiesta di senso. Se non fosse così, non si spiegherebbe, giusto per rimanere sul “caso” Panella, la smania esegetica che pervade gli appassionati del secondo Battisti, i quali sono lungi dall’adattarsi a una lettura “estetizzante” di quei testi».
Ai limiti del traducibile. La zoologia fantastica e le nostre canzoni preferite
Certo è singolare, o probabilmente non lo è affatto, che il mio primo approccio a Battisti, al di là dei capolavori mogoliani fischiettati da mio padre, sia stato l’insostenibile (per i normaloidi) Hegel: dalla prospettiva del pop italiano, ero come un bambino nato durante l’apocalisse. Il trauma non deve avermi fatto bene, ma in effetti stavamo parlando d’altro, dunque torniamo alla questione prodigio da bambino, da grande un cretino…
Chiariamo subito un punto: la maggior parte degli enfant prodige vogliono approfittare del clima generale di “vittimismo politicizzato” per inserirsi nella folta schiera dei piagnoni postmoderni e ottenere magari qualche gratificazione se non materiale almeno psicologica. Sinceramente non ci tengo ad aggiungere alla sigla LGBTQIA+ anche BP (bambino prodigio), considerando anche i personaggi equivoci che bazzicano l’acronimo. Al di là di questo, però, non posso nemmeno fingere un’insensibilità per una tematica che sento riguardarmi personalmente: il massimo sforzo di “maturità” che posso permettermi è tentare di offrire qualche spiegazione razionale.
Partiamo dalla materia, cioè il cervello umano (irriducibile alla materia, ovviamente, come qualsiasi materia riferibile all’umano): esso è progettato per stabilizzarsi e consentire a due emisferi di raggiungere un equilibrio tramite poche idee semplici e nette, che possano garantire un minimo di sopravvivenza all’individuo. È chiaro che nella sua fase di sviluppo la materia cerebrale è sollecitata da milioni di stimoli e ogni esperienza arricchisce in maniera immediata lo spirito di una creatura venuta al mondo da pochi anni.
Tuttavia, in breve tempo si fanno indispensabili schemi, dogmi e paradigmi, ovvero routine, noia e necessità. La frustrazione è dunque inevitabile, ma se questo fosse il solo problema, io da vero bambino prodigio quale nacqui, vi avrei già sopperito nel momento in cui mi sono messo a imparare decine di idiomi, restituendo alla neuroplasticità quantomeno una parvenza delle glorie passate.
Però questo non basta: allora veniamo alla spiegazione “pseudo-clinica”. Nel breve periodo in cui mi sono dato all’insegnamento (che ho abbandonato con la scusa del Green Pass ma mi è sempre stato stretto, in quanto mestiere troppo legato a un “sistema” che odio, ma la discussione sul punto sarebbe troppo lunga e tediosa) ho incontrato diversi casi di alunni, che avevano dimostrato comportamenti patologici sin dalla elementari, i quali erano stati segnalati dagli psicologi come affetti -se così si può dire- da una “atipicità” (non considerata dunque una malattia), definita in vari modo: plusdotazione intellettiva, iperdotazione cognitiva, alto potenziale cognitivo.
Per farla breve, con tale etichetta si suole indicare quegli individui dotati di un quoziente intellettivo abbastanza alto da farli spiccare oltre la media, ma non così elevato da garantir loro un’esistenza da “genietti”. Il risvolto -tristissimo- di un talento solo tale all’apparenza, è che questi “plusdotati” (in senso rigorsamente cognitivo, lasciamo da parte battute equivoche) cominciano a provare frustrazione molto precocemente, ottenendo in breve tempo, nonostante eventuali dimostrazioni di capacità intellettive superiore in taluni campi, risultati mediocri a livello scolastico e ancor più in ambito esistenziale.
Nei casi più estremi, l’alto potenziale cognitivo porta in concreto a condurre una vita ai margini della società, o addirittura a rifarsi a comportamenti antisociali (vandalismo, microcriminalità, tossicodipendenza) per sopperire alla disillusione e all’inappagamento.
Comprendo che la maggior parte di voi nutrirà un sano scetticismo verso tale approccio “medicalizzante”, ma quale potrebbe essere una risposta scientifica alla questione? Se volete, potrei pure esibirmi in qualche analisi pseudo-comunista su quanto il capitalismo crei desideri che poi è incapace di soddisfare, ma sarebbe intellettualmente disonesto mettersi a confutare la cosiddetta Libido-Ökonomie partendo da presupposti altrettanto materialistici (almeno il Capitale promette montagne di hamburger e mari di Koka Kola, ma poi offre comunque la possibilità agli schiavi di acquistare un cartoccio e una lattina, mentre chi vi si oppone da premesse liberali annuncia il paradiso sulla terra sempre alla prossima generazione).
Con ciò non voglio negare una dimensione sociale o “strutturale” della questione, quanto evitare di ridurla a una dimensione: in fondo, in società “platoniche” come la Corea del Nord i bambini prodigio non esistono perché ognuno trova appagamento in quel che fa (anche per il semplice fatto che se non lo facesse finirebbe ai lavori forzati); invece nei sistemi “aperti” (perlopiù allo squallore e alla generazione) tutti sono dei Da Vinci mancati e utilizzano qualsiasi mezzo (i sociali, i figli, il sesso, il gioco, i blog ecc…) per rimarcarlo.
La sublimazione potrebbe offrire un’alternativa, ma dopo la demonizzazione estenuante alla quale il concetto è stato sottoposto, i “genii mancati” (mantengo l’arcaismo con la doppia “i” perché sono nato anche retrogrado) dovrebbero puntare alla sovversione del mondo moderno come programma minimo di compensazione per le promesse non mantenute.
Dipende dal fatto che il bambino prodigio psicologicamente si “incatena” all’identità passata, e niente è più dannoso per il progresso (nel senso di evoluzione personale), per l’opportunismo, forse anche per l’empatia, nella primissima età adulta (doti rispettivamente essenziali per tutti i settori della nosdra ciociedà). A quel punto è già un “disadattato”. La nostra società effettua una discriminazione strutturale (come dicono le identity politics, te le ricordi?) mostruosa in base all’età (ageism): un minimo disallineamento ha effetti catastrofici. Ciao!