Negli ultimi due mesi Netflix ha lanciato la Dahmer-mania: una miniserie televisiva e un documentario in tre parti dedicato al famigerato “mostro di Milwaukee” Jeffrey Dahmer, un gay che andava in giro a rimorchiare altri gay per ucciderli e poi eventualmente mangiarseli. Se è discutibile la scelta, da parte dei media statunitensi, di procedere ancora con la spettacolarizzazione delle vite dei propri serial killer (e in questo Netflix, che pure fa impazzire i radical chic, è tutt’altro che riflessiva e analitica, anzi è il peggio del peggio), in tal caso la nota piattaforma è andata oltre il consentito confezionando un’opera di pura propaganda, nella quale Dahmer appare come un suprematista bianco espressione di un sistema, quello americano (o “bianco” o “occidentale”), intrinsecamente oppressivo nei confronti dei neri e delle minoranze etniche.
Con immensa malizia, la compagnia californiana ha inizialmente lanciato le 10 puntate della serie (uscite a settembre 2022) per poi successivamente (ottobre 2022) rendere disponibili altre tre puntate di un documentario (Conversations with a Killer: The Jeffrey Dahmer Tapes) che per giunta smentiscono in parte quanto rifilato qualche settimana prima agli spettatori.
Vediamo di analizzare in maniera più approfondita la questione: per comprendere la disonestà intellettuale (e non solo) dell’operazione messa in atto da Netflix, bisogna partire dai presupposti con cui il colosso dello streaming ha voluto distorcere le vicende riguardanti l’assassino seriale. Nella fiction, Dahmer può scorazzare per il Wisconsin a uccidere giovani gay di colore con la complicità della polizia e del “sistema”; nella realtà, come del resto il loro stesso documentario attesta (tanto per darsi una parvenza di obiettività), il motivo principale per cui la polizia non andò mai a ispezionare l’appartamento del “mostro” va ricondotto all’ordine non scritto, rivolto agli agenti, di “rispettare la comunità gay di Milwaukee” e di non azzardarsi ad arrestare qualcuno solo in quanto omosessuale. Dunque sarebbe più lecito rapportare l’impunità di Dahmer al clima di tolleranza e politicamente corretto ormai divenuto mainstream tra la fine degli anni ’80 e l’inizio dei ’90, che non a un fantomatico “razzismo intrinseco delle istituzioni bianche”.
Questa è una constatazione pacifica è chiunque non la condivida è probabilmente in malafede, come d’altronde lo sono gli sceneggiatori (Ryan Murphy e Ian Brennan) della serie Netflix, che hanno manipolato all’estremo, fuori da qualsiasi licenza narrativa o artistica, le “imprese” del gay cannibale. Giusto per fare un esempio: Netflix inventa che i due poliziotti che hanno evitato di arrestare Dahmer quando un giovane prostituto di origine laotiana era scappato da casa sua in stato confusionale (poi si scoprirà che Dahmer gli aveva fatto un buco in testa e vi aveva versato dentro dell’acido per creare una sorta di zombie, o golem…), i quali peraltro avevano agito per l’ordine non scritto a cui abbiamo accennato più sopra (non perquisire o arrestare omosessuali per non far incorrere il dipartimento nell’accusa di “omofobia”), avrebbero poi ricevuto un premio come “poliziotti dell’anno” o roba del genere. L’episodio in questione (ripetiamo: inventato di sana piana) viene inserito in una sequenza cruciale dove da una parte si vedono gli sbirri al gran galà della violenza poliziesca e dall’altra i poveri testimoni di colore che non sono stati creduti. Tutto falso.
Come è falso il fatto che il giudice al processo si sia permesso di interrompere la testimonianza del padre del prostituto laotiano di cui sopra perché “non parla bene l’inglese”. Come è falso che i due “poliziotti dell’anno” abbiano stalkerato al telefono quest’ultimo per fargli lasciare la città. Come è falso che la figlia di una delle testimoni cruciali (Glenda Cleveland, la vicina di Dahmer), sia stata arrestata per aver rotto la macchina fotografica di tre ragazzotti bianchi che si stavano permettendo di imitare l’assassinio davanti allo stabile in cui abitava. Come è falso, per andare a ritroso nella serie, che Dahmer e suo padre passassero giornate intere a dissezionare carcasse di animali nel seminterrato (in tal caso l’intento è naturalmente quello di criminalizzare la “mascolinità violenta” o roba del genere). Come è falso che Dahmer abbia minacciato con una mazza da baseball un tizio che faceva jogging nel parco vicino a casa sua (in realtà lui si era appartato ma il giovane non era passato: l’inserimento dell’ennesimo episodio contraffatto serve ad amplificare nella mente dello spettatore la convinzione dell’impunità assoluta di Dahmer).
Sicuramente ci sono altri falsi, ma non essendo un dahmerologo (i miei eroi, seppur anch’essi morti o in galera, sono benaltri), mi limito solo a questi. Tuttavia, a memoria, potrei citare anche il fatto che a un certo punto Dahmer, millantando una fantomatica carriera nell’esercito, comunica a suo padre che forse verrà mandato di stanza in Germania Ovest, e quest’ultimo commenta la notizia affermando: “Magari incontrerai qualche nostro parente”. Difficile che una considerazione del genere sia mai stata formulata dal padre, che aveva lontanissime origini tedesche ma era americano da generazioni: evidentemente l’elemento serve a instillare nella mente di chi guarda che Dahmer sia un po’ “tedesco”, come Adolf Hitler o Donald “Drumpf” Trump.
Passiamo però alla categoria del “verosimile”: Netflix ha preso degli elementi oggettivi, come il fatto che la maggior parte delle vittime di Dahmer fossero di colore, per confezionare una marchetta a movimenti come Black Lives Matter e affini. In verità Dahmer non ha mai espresso opinioni razziste nel corso della sua vita, né si è mai posto la “missione” di eliminare gay omosessuali da Milwaukee: semplicemente sceglieva gente di colore perché erano i più emarginati tra gli emarginati. E qui si può apprezzare un’altra grande bugia netflixiana: a fronte della reiterata rappresentazione della “comunità nera” come compatta e assetata di giustizia, la verità è che la maggior parte degli afroamericani venivano esclusi dalla propria comunità proprio in quanto omosessuali.
Almeno qui ci si sarebbe aspettati che Netflix si fosse soffermata un istante sull’omofobia pervasiva dell’epoca (che in verità stava ormai scomparendo in favore dell’odierna “omofilia”): invece neanche una sbavatura nel copione, i neri sono tutti tolleranti e ben disposti nei confronti degli omosessuali, mentre è solo l’uomo nero (cioè bianco) Jeffrey Dahmer che viene a distruggere l’eden multirazziale e multisessuale della comunità afroamericana di Milwaukee.
In particolare c’è un episodio della miniserie, il sesto, interamente dedicato a una delle vittime di Dahmer, Tony Hughes, gay nero sordomuto con gli occhiali e mancino, che è un puro concentrato di netflixismo: la disabilità, l’appartenenza a minoranze etniche e sessuali e in generale il sentimentalismo politicamente corretto. Anche qui lo schema è lo stesso: le scelte di vita della vittima non sono mai contestate né dalla sua famiglia né dalla sua comunità, anzi egli sta letteralmente vivendo il “sogno americano” in quanto gay (diventa modello), disabile (viene assunto in un negozio perché uno dei commessi ha una sorella anch’essa sordomuta) e ovviamente nero. Uno spot intersezionale di rara maestria propagandistica, che non ha comunque impedito alla piattaforma di incappare nelle ire arcobaleno, dato che proprio in virtù di puntate come questa (ma pure qui andrebbe precisato che la storia d’amore tra vittima e assassino è inventata, Dahmer non aveva mai visto Hughes prima di invitarlo a casa sua per ucciderlo) la serie televisiva era stata posta sotto l’etichetta LGBTQ (rimossa dopo le proteste delle amorevoli associazioni rappresentanti della sigla). Questo solo per far capire a che livelli di demenzialità siamo giunti, anche se comunque l’obiettivo della distorsione netflixiana non cambia: la tesi è fare il lavaggio del cervello alle nuove generazioni e convincerle che gli americani bianchi siano tutti dei Dahmer in fieri.
Ci sarebbero altre decine di particolari su cui discutere, per esempio il fatto che il padre dell’assassino venga posto indirettamente sotto accusa perché avrebbe offerto al figlio un’educazione “troppo virile” (pesca, caccia, coltelli), quando nella realtà appare perlopiù un genitore assente e disinteressato, oppure che allo stesso vengano messe in bocca frasi del tipo “anch’io sognavo da ragazzo di uccidere una persona come mio figlio” (cosa sarebbe, una denuncia della genetica naturaliter predatoria dell’uomo bianco?). Per non dire delle puntate conclusive, nei quali il “signorino” Dahmer in galera viene trattato con i guanti bianchi (absit iniura verbis) come parte di un’élite inesistente (e anche il suo assassinio da parte di un altro detenuto, di colore, viene posto più sotto la luce della vendetta razziale che non dell’ideale del “farsi giustizia da soli”). Mi pare tuttavia sia inutile aggiungere altro, dal momento che chiunque (sempre se in buonafede) può accorgersi della pretestuosità di questo prodotto Netflix.
Alla fin fine, non si capisce perché gli americani amino sottoporsi a questo tipo di propaganda. Probabilmente non lo amano affatto e sono solo costretti a farlo dal mainstream. Perché una cosa va in ogni caso osservata, al di là dei contenuti ideologici e della politicizzazione della serie: l’opera in sé è bruttina ed estremamente noiosa. Anche gli amanti del grandguignolesco (al quale potremmo concedere un lasciapassare solo dalla prospettiva della catarsi aristotelica) non possono che rimanere a bocca asciutta (chiedo scusa per la metafora): chi si attendeva le imprese di un Barbablu gay si becca invece dieci ore di indottrinamento di stampo pseudo-maoista. Jeffrey Dahmer: da omosessuale cannibale a suprematista bianco. Siamo ai limiti dell’istigazione a delinquere. Che pena, America.
Hai ragione.
Puoi citare qualche fonte?
Sauce?
Lo stesso documentario di Netflix che contraddice diversi episodi della serie; Wikipedia; le memorie del padre di Jeffrey Dahmer, Lionel (A Father’s Story del 1994) consultabili su archive.org.