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Provinciale (tratto da una storia vera)

Dalla regia mi dicono che la tuttologia è l’unica modalità che il provinciale riesce a concepire per approcciarsi alla conoscenza: me lo rivela irl un caro lettore che come esempio mi porta l’Autodidatta di Sartre, il pederasta che voleva leggersi l’intera biblioteca in ordine alfabetico. Non ho avuto il coraggio di confessarglielo, ma nell’istante in cui conclusi la maturità, ciò che feci fu proprio correre alla biblioteca del paesello e tentare l’impresa di leggere tutti i libri avendo come unico criterio l’ABC: cominciai da Giuseppe Cesare Abba, Nicola Abbagnano, il libro di Abdia e Kobo Abe; naturalmente smisi dopo una settimana.

Il guaio è fino a quel momento avevo fatto solo finta di leggere La Nausea, dunque mi trovato addirittura nell’impossibilità di figurarmi la mia miseria intellettuale. In compenso, ero al corrente di quella che io stesso definitivo “La Sindrome della A”, la smania di stilare una enciclopedia universalissima che soverchiò il giovane Papini: «Sapere, sapere, sapere tutto. (Ecco la parola della mia rovina: tutto!)». Come quei pensionati che si accaparrano solo il primo volume -solitamente gratuito- degli infiniti “Dizionari” (Aaa-Aab) allegati ai giornali, allo stesso modo Papini (per inciso l’unico vero autore che lessi al liceo per mia volontà) si arenò alla prima lettera della sua Encyclopædia Universalis:

«Oh quanto mi detter da fare tutti quei fiumiciattoli germanici che cominciavano per Aa – e quanti mai titoli di libri dovetti registrare per render conto di una dinastia di dotti olandesi, dei von der Aa – e come fu lunga e tediosa la lista delle abbreviazioni latine che comincian con A! In quei giorni fui preso da tenerezza per la città di Abila, lontana città sul mare; e vidi per la prima volta opere di legge per parlare con aria d’intenditore dell’abigeato. Risfogliai il vecchio testamento per ritrovare la pietosa Abigail e il profeta Abacuc; snidai ne’ commentatori di Dante la vita e le gesta dell’incendiario Bocca degli Abati; feci conoscenza con tutte le varietà dell’abete; mi erudii nella storia di Abbiategrasso e nella geografia dell’Abissinia.
[…] Eppure anche quella impresa che magnificava me stesso, povero ragazzo ignorante, ai miei occhi e perfino a quelli de’ distributori di biblioteca che mi guardavano con una compassione venata d’ironia e di rispetto, mi venne a noia o, per dir meglio, mi spaventò per la perfezione che volevo raggiungere. Già lavoravo da un paio di mesi, e di mattina e nel pomeriggio sotto i finestroni infuocati e di sera sotto le lampade ad arco in un’altra biblioteca o al lume di candela in camera mia, eppure scrivi e riscrivi non ero riuscito a oltrepassare le parole che cominciavano per Ad. Un lunghissimo articolo sul furente Achille mi seccò. Costeggiavo la questione omerica; ero sull’orlo della filologia classica; parecchie parole greche (che non capivo) mi arenarono e mi umiliarono».

Ora, i tempi per tutti noi sono ovviamente cambiati: per quanto mi riguarda, da quando sono blackpillato in biblioteca non ci vado nemmeno più, sia perché essendo in un cesso di provincia non ha i vetri insonorizzati e i ragazzini -ontologicamente terroni- vengono a giocare nel giardinetto circostante in qualsiasi stagione (persino a 0 gradi); sia perché dover studiare in presenza delle donne in generale mi infastidisce sempre. Me le ricordo, retroattivamente, tutte queste Becky che mi lanciavano occhiatacce quando cancellavo la sottolineatura trovata in un libro preso in prestito, ma non appena sentivano un coglione ruttare fuori dalla finestra scoppiavano in insopportabili risolini. Com’è che tutte le donne sono attratte dalla brutalità, dalla maleducazione e dalla violenza? Eh, come la mettiamo?

«La maggior parte dei maschi infedeli, seduttivi o sessualmente violenti sono favoriti dalla selezione naturale, perché essa trasmette il patrimonio genetico a un alto numero di discendenti: i quali, ereditando i suoi geni, propenderanno a loro volta per la seduzione e così via» (Luigi Zoja, Il gesto di Ettore, 2003).

Ma lasciamo perdere. Stavamo parlando dell’intellettuale di provincia. Praticamente il caro lettore voleva farmi capire in maniera educata che dal punto di vista intellettuale non valgo un cazzo, e io ci sto. Non è del resto colpa mia se sono nato brutto e in provincia di Milano (che non è solo provincia è basta, è l’apoteosi della provincia, è la versione più umiliante e frustrante e degradante di una provincia perché continuamente sobillata dalla spada di Damocle della grande città, ricordate almeno Bianciardi?), però la questione a mio parere oltrepassa la dicotomia tra tuttologo dilettante e gourmet cosmopolita e risale ai tempi della disputa sugli universali.

La querelle tra nominalismo e realismo infatti non si è ancora conclusa (a meno di non voler ipotizzare un “pareggio” col concettualismo).  Probabilmente in qualche angolo di dipartimento ancora se ne discute, tuttavia quell’impellenza di possedere uno strumento con cui afferrare l’intera realtà mi pare si sia persa, nonostante se ne senta ancora un’eco “popolare” (provinciale?) nello straordinario Funes el memorioso di Borges:

«Éste, no lo olvidemos, era casi incapaz de ideas generales, platónicas. No sólo le costaba comprender que el símbolo genérico perroabarcara tantos individuos dispares de diversos tamaños y diversa forma; le molestaba que el perro de las tres y catorce (visto de perfil) tuviera el mismo nombre que el perro de las tres y cuarto (visto de frente)».

Ancor più singolari, se possibile, gli accenni alla questione che Jung propone in Tipi psicologici, laddove paragona la posizione nominalistica di Antistene a quella di «un proletario che faceva del suo astio una virtù», dato che non era «un greco di sangue puro, apparteneva alla periferia», e identifica il nominalismo antiplatonico della scuola di Megara come anch’esso frutto dell’invidia «di chi non gode di tutti i diritti civili e politici del cittadino». Dunque il nominalismo come “filosofia del proletario”, determinata dall’oggetto sensibile, dal sentimento individualistico? Uno spunto interessante, se pensiamo che anche Borges relegò il suo Funes in una provincia (prima mentale che geografica).

Parlandone ancor più terra terra, è curioso come la questione emerga nella vita di tutti i giorni senza che uno possa darsene contezza, quando, per fare un esempio, si raccontano a persone calve e grasse barzellette sui calvi e sui grassi. In tal caso è il realista che pecca di provincialismo (o perlomeno di grettezza), non rendendosi conto che il calvo o l’obeso guardandosi allo specchio nei momenti di sconforto considera quegli accidenti non come tali, ma come caratteristiche facenti parte della sua stessa personalità. Il nominalista comprende invece perfettamente tale sensibilità, anche se talvolta la battuta gli scappa perché è comunque provinciale.

La questione si complica quando dalla filosofia si passa alla politica, perché se da categorie non protette dal politicamente corretto odierno (a parte forse gli obesi, ma solo se di sesso femminile) il discorso cade su donne, ebrei o gay, ecco che il realista  al cospetto di una “minoranza oppressa” (immaginaria o meno) è costretto a non fare battute in base allo stesso principio per cui invece poteva scherzare sui calvi con un calvo: il realismo politico (e non più filosofico) ipotizza l’omosessuale iperuranico (absit iniura verbis) pronto a offendersi per una battuta sull’Aids o sulle “inculate” come metafore della malasorte.

Soltanto per questo, la questione meriterebbe di evadere dall’angusto confino degli appunti di qualche studente per essere affrontato in maniera più coinvolgente, in un talk show o perlomeno in uno di quei test internettiani da rotocalco scandalistico (“E tu sei più realista o nominalista?”). I risultati ci aiuterebbero anche a capire qualcosa in più di noi stessi: io, per esempio, pur essendo un provinciale mi sono convinto di essere realista, ma soltanto perché la provincia non mi piace molto.

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