[Ripropongo questo pezzo, scritto per una rivista di storia nell’ormai lontanissimo duemilaequalcosa -e ovviamente adattato al formato blogs, dunque condito di alcol e meme e stravolto completamente rispetto al testo originale-, sulla scia del dibattito suscitato dalla mia aggressiva interpretazione delle mating strategies dei camerati, esposta qui e poi qui]
Stupisce la perfetta coincidenza tra il finale di Mephisto di Klaus Mann e quello di Borotalco di Carlo Verdone: una rivisitazione del mito della Schwarze Venus che nel Vecchio Continente si manifestò nelle vesti della “Venere Ottentotta” durante le esposizioni etnologiche di fine ’800, in qualità di Vénus noire al cospetto di Baudelaire nelle sembianze della sua musa creola Jeanne Duval (prostituta d’alto bordo), e come preda e trofeo nella fase libertina del colonialismo, giù giù fino alle esibizioni di Joséphine Baker senza soluzione di continuità con la Blaxploitation del Nuovo Mondo.
Partiamo con qualche “pillola di storia”: nell’ottobre 1970 la rivista francofona terzomondista afrocentrica “Jeune Afrique” pubblicò le foto di una modella nera in deshabillé, la ballerina del Crazy Horse Miss Zabôô. La redazione venne subissata di proteste da parte dei lettori che lamentavano una esibizione della négresse da festino coloniale, roba che non aveva nulla a che fare con una testata dichiaratamente progressista e antirazzista.
La polemica giunse anche in Italia e interessò nientedimeno che Augusto Del Noce, il quale ne parlò in “Europa” (Neo-colonialismo e pornografia, n. 26-27, 31/10/1970, pp. 81-84):
«Oggi è un fatto che pornografia e colonialismo si sono associati. Al negro viene oggi riconosciuto un “valore”, ma purché si adegui all’immagine che la “razza dominante”, la razza “bianca” ne ha costruito a proprio vantaggio. Si adegui, cioè alla versione “relativista” del mito del buon selvaggio; il buon selvaggio dimostrerebbe la relatività di tutti quei valori che la civiltà ha presentato come assoluti, annullando con ciò il culto della tradizione, come culto mistificatorio. […] [Si è scelta] quindi una nuova via colonialista: i paesi dell’Occidente […] si sarebbero auto-sradicati dalla tradizione.
In questo auto-sradicamento avrebbero incontrato la négritude, che continuava a essere caratterizzata secondo il modello consueto, non diverso in nulla da quello già proposto dal conte di Gobineau, dalla totale prevalenza del senso e dell’immaginazione. Dunque, dopo che questi caratteri specifici sarebbero stati integrati (danze, musiche, arte negra, ecc., giù giù fino agli spogliarelli), dopo aver onorato coloro che più si distinguono in queste arti, dopo, in base al naturismo e al “principio del piacere” avere assorbito la “cultura africana”, la négritude si sarebbe trovata inserita nel mondo civile, però al momento del carnevale e della festa. […]
I negri più seri hanno però provato di aver compreso perfettamente il giuoco. Tenetevi, hanno risposto, l’erotismo che consegue alla crisi di negatività rispetto alla tradizione che caratterizza oggi la vostra civiltà, non attribuitelo però a noi, e soprattutto badate bene a non farne un simbolo della nostra cultura. La liberazione negra non è affatto partecipazione alla vostra crisi».
Gli argomenti del filosofo sono tuttora validi, nonostante il “nudo artistico” abbia fatto il suo tempo e oggi si discuta soprattutto di controllo demografico e imperialismo culturale (contraccezione, aborto, sterilizzazione, gender ecc…). Ma lasciamo da parte questa roba – I promise I won’t get all political. I tre drink li avevo bevuti per parlare esclusivamente della Venere Nera, oscuro oggetto del desiderio per maschi ingenui.
Sia chiaro, io non so nulla di queste cose, però qualche tempo fa mi è capitato di vedere un video in un cui una ragazza afroamericana attaccava uno sfigato con i rasta, reo di essersi impadronito di un elemento della “sua” cultura e averlo trasformato in stereotipo.
Ora, il tizio bianco (che di cognome farebbe… Goldstein – lol), non ha capito che questa è la modalità standard con cui le negre (lato sensu) si approcciano ai visi pallidi. In Italia lo stesso fenomeno si verifica quando un maschio nordico incontra una ragazza meridionale (non a caso molto spesso ci si riferisce al Sud Italia come “Africa”), tuttavia negli ultimi anni, grazie all’immigrazione e ai matrimoni misti, sta emergendo anche da noi questo tipo di femminilità black.
Personalmente ho vissuto qualcosa di simile alla scena di cui sopra parecchie volte: ad esser sinceri, è solo molto tardi che ho capito in cosa consistesse la faccenda, forse troppo tardi (almeno non ho dato a nessun Mario Brega il pretesto per prendermi a cinghiate). Anch’io restavo sconcertato, telefonavo in lacrime a mia madre (“Lo sai cosa mi ha detto quella? Io non le ho fatto niente!”), specialmente nell’epoca in cui ero di sinistra e credevo al bon sauvage. Poi ho capito appunto che si trattava soltanto di uno stupido rituale d’accoppiamento.
È probabile che nella seduzione dei fasci da parte del pool genico afro-balcanico si inserisca un fattore riconducibile a tale fenomeno, che cumcietta non riesce più a interpretare (ancora qualora fosse realmente intenzionata a farlo) essendo cresciuta tra improponibili patriarchi boomer.
Non bisogna però indulgere troppo nell’esterofilia, perché cumcietta è più un abito mentale che biologico (o per meglio dire etnico, perché biologicamente le femmine sulla lunga distanza sono tutte cumcietta, a parte la Madre di Nostro Signore che però ecco insomma basta), e anche il magrebino più duro e puro rimosso dal suo habitat naturale diventa una scartina incapace di ottenere alcun rispetto dalla prole.
Io non volevo offendere nessuno (in realtà sì, seppur non per litigare), ma solo far notare quanto sia stucchevole l’esaltazione della d-parola straniera, specialmente nel momento in cui vivete in un Paese che a qualsiasi livello (a parte quello materiale e geografico), è davvero un Continente: le romene/moldave ce le avete già (la storica “Terra di Lavoro”); le nordafricane potete recuperarle in molte parti del Sud (che, ripeto, è fondamentalmente Affrica, dai questo lo sappiamo tutti sin dai tempi di Garibaldi); le giapponesine sono negli ex territori della Serenissima (e anche le cinesine, visto i ritmi di lavoro); le sudamericane probabilmente le trovate fra Campania, Calabria e Puglia; le ucraine sono tipo verso il Friuli (non me ne intendo); le albanesi sono in Calabria, dove esistono letteralmente dal 1400.
Non vorrei però chiudere con una nota malinconica. Quindi, per la gioia dei kuciani maniaci, ecco un paio di fotografie riassuntive di quanto è stato detto (immagini e testi tratti da una rivista anni ’70, “Photo 13”):
«È questo un pezzo pochissimo noto di un servizio fotografico, realizzato nel corso dei preparativi di una festa al Circolo Ufficiali di Massaua, nel 1892 (epoca delle prime guerre coloniali italiane), dal fotografo Marietti già con studio in Napoli, emigrati con i primi civili italiani in Eritrea al seguito delle truppe d’invasione.
La foto del Marietti rappresenta il “corpo di ballo” formato con i “migliori elementi” del postribolo locale. La scritta dice: “Teatro Circolo Ufficiali – Ballo Theodoros – Ballerine di 1a fila – Massaua 20 ottobre 92 – fotog.o L. Marietti”. È supponibile che quest’ultimo ne stampasse qualche decina di copie per venderle come ricordo agli ufficiali.
Si noti nella composizione la grottesca ricerca della simmetria. Le ragazze sono in gran parte giovanissime, dai 13 ai 15 anni. Il fondale “africano” dipinto e tenuto sollevato da due colonne di legno e i cappucci da prete copto e i berretti militari, completano il quadro tragico e malinconico di “costume coloniale”»
«Ci troviamo di fronte a un piccolo capolavoro: uno dei pezzi più belli in assoluto della storia della fotografia italiana. La splendida fanciulla etiope qui ritratta era la “prima ballerina” del “balletto Teodoro” organizzato dal Circolo degli Ufficiali. Il pezzo originale è costituito da una stampa al collodio virato in cilestrino, splendido, irripetibile».