L’incredibile assalto di Hamas contro Israele partito dalla Striscia di Gaza (obiettivamente uno dei posti più sorvegliati al mondo, sicuramente più di Molenbeek o Lampedusa) solleva una marea di dubbi sia riguardo all’eventualità che una nazione che si vanta di avere l’intelligence più preparata di tutte si sia fatta cogliere completamente impreparata, sia all’assoluta insensatezza che anche sulla breve distanza sembra caratterizzare la strategia di Hamas.
Le due questioni probabilmente intrattengono un qualche legame, specialmente se si considera come è probabile sia stata soprattutto la mancanza di un significato politico delle azioni di Hamas a costituire l’elemento principale dell’effetto sorpresa che ha concesso ai suoi militanti di penetrare nel confine e perpetrare stragi in una ventina di città israeliane.
Lo stesso “Movimento Islamico di Resistenza” è di per sé un enigma nella storia recente del conflitto, tanto è vero che le altre organizzazioni palestinesi, laiche ma anche panarabiste (obiettivamente le uniche alle quali si potrebbe conferire un’aura di “mazzinianesimo” sulla scorta di Craxi), non si sono mai risparmiate nel divulgare dietrologie e complottismi sulla nascita di Hamas, fino quasi a considerarla una psyop di Israele per minare dall’interno qualsiasi possibilità di trattativa.
È evidente dunque che l’assalto perinde ac cadaver condotto dai palestinesi di Gaza, da tempo ormai divenuto Hamastan, esprima anche un’ispirazione differente rispetto a quel palestinismo che continua ad andar di moda, seppur tra bandiere sbiadite e sdrucite, tra progressisti e liberal occidentali. Probabilmente anche il mito della “nazione di martiri” può rappresentare un’indice dell’influenza sempre più forte che gli ayatollah hanno sul movimento.
Da questa prospettiva, non stupisce che tra le motivazioni della sortita rivendicate dai portavoce di Hamas ci sia persino quella di sventare ogni tentativo da parte delle autorità israeliane di erigere il famigerato “Terzo Tempio” a Gerusalemme, una paranoia ortodossa che negli ultimi trent’anni ha tuttavia guadagnato innumerevoli sostenitori anche nelle comunità ebraiche internazionali (per non dire di evangelici e altri fondamentalisti cristiani d’oltreoceano).
Tutto ciò potrebbe forse spiegare in parte l’impreparazione dell’esercito israeliano a fronteggiare un’azione assolutamente prevedibile, considerando anche la coincidenza con il cinquantesimo anniversario della Guerra del Kippur. L’idea che si possa trattare di un false flag non convince per il semplice motivo che il “danno d’immagine” (purtroppo la spettacolarizzazione e la propaganda hanno un peso enorme in certe tragedie) per lo Stato ebraico sia più potente di qualsiasi video di “barbarie islamiche” possa comparire sui social (posto che i primi a divulgare le testimonianze delle barbarie compiute sono proprio i carnefici).
E alla fine sfugge anche l’obiettivo di un eventuale casus belli provocato ad arte: l’unica cosa che può fare Tel Aviv, ormai quasi controvoglia, è andare a bombardare a caso la Striscia di Gaza, beccarsi i soliti rimbrotti da Nazioni Unite e compagnia cantante, e proseguire nel ciclo di violenze sempre più insensato. L’eventualità che possa in qualche modo muoversi da sola contro Teheran senza il consenso di Washington è poi risibile (le stesse discussioni erano peraltro emerse con l’assassinio di Soleimani, che non ha prodotto alcuna delle apocalittiche conseguenze evocate).
Parlando, con un’immagine ormai ridicola, dello “scacchiere internazionale”, un fattore che mi sembra nessun analista voglia prendere in considerazione è l’enorme quantità di armi riversate sul mercato nero in seguito alla congiuntura rappresentata dal ritiro degli americani dall’Afghanistan e dal diluvio di “forniture” piovute sull’Ucraina negli ultimi anni.
Ci sono diverse testimonianze (sfortunatamente inverificabili, ma comunque verosimili) di miliziani di Hamas che sfoggiano RPG ringraziando direttamente il “governo di Kiev” (?) per averglieli forniti e nuovissimi fucili d’assalto probabilmente abbandonati ai talebani dalle forze speciali statunitensi. Al di là di quanto materiale possano aver procurato iraniani e libanesi, è obiettivo constatare che anche i canali indiretti abbiano assicurato un arsenale pronto all’uso che in altri tempi i palestinesi di Gaza sarebbero riusciti ad accumulare solo in anni.
Ecco perché si auspica che prima di aprire o riaprire fronti, negli Stati Uniti, anche in corrispondenza con le elezioni presidenziali, sorga un dibattito impietoso sull’eredità che l’interventismo americano ha prodotto, considerando proprio l’ultimo exploit di Hamas come “vaso comunicante” di una serie di iniziative fallimentari.