Prima o poi sarò costretto a trattare del Gamergate, ché sulla Wikipedia italiana ve la raccontano come vogliono loro («una campagna di molestie […] che verteva sulla questione del sessismo e del progressismo nella cultura dei videogiochi»), quando invece rappresenta un notevole spaccato della nostra realtà, tra la sinistra politicizzazione della comunicazione di massa e la manifestazione del femminismo come pura espressione di cratofilia, sete di potere.
Il problema è che io odio i videogiochi, li considero quasi come una forma di auto-lesionismo, anche se d’altro canto gli riconosco la possibilità di trasformarsi in un efficacissimo sistema di controllo delle masse. Non credo dunque di essere in grado di parlarne, semplicemente perché non mi va di approfondire una cosa che non sopporto: posso solo offrirvi qualche “sentito dire”, qualche “scampolo di esperienza”. Anche per tale motivo, mi manterrò a un livello metapolitico, cioè eviterò di rispondere a questioni ridicole del tipo “i videogiochi fanno diventare di destra?” (e forse è meglio così).
In primo luogo, parliamo del fenomeno Pokémon Go, che per l’assoluta discrepanza tra hype artefatto e resilienza effettiva può essere paragonato al Betamax o al Tamagotchi. Ammetto che non sono riuscito ancora a capire di cosa si tratti (o forse ho capito che è meglio fingere di non aver capito), in ogni caso ai tempi d’oro in cui sembrava che il giochino dovesse conquistare il mondo (un’estate di due anni fa, per la precisione) comparivano mappe come questa:
Col senno di poi, il quadro era eccessivamente ottimistico (in quanto basato solo su una “previsione di sviluppo”), nonostante va riconosciuto che, a parte le nazioni che l’hanno apertamente vietato (come Arabia Saudita e Iran), nelle altre era già possibile utilizzarlo prima della sua “pubblicazione”, sia nell’intera Africa che, per esempio, in Bhutan, Kazakistan o Turchia.
Ricordo in effetti che la stampa turca lo adottò per un certo periodo come metafora elettiva per vari eventi politici, tanto che il numero di volte in cui venne chiamato in causa dai loro media rispetto a quelli italiani mi fa pensare che nel nostro Paese la “mania” non sia nemmeno arrivata.
Un caso particolare è invece rappresentato dalla Corea del Sud, paese nel quale la diffusione del gioco è stata a lungo vietata per motivi di sicurezza nazionale. Una volta superati gli impedimenti (legati alla mancata mappatura di molte aree “proibite”da parte di Google), il gioco non è comunque decollato, nonostante la Corea sia uno dei paesi in cui la ludopatia è più diffusa.
Parlando sempre da n00b, penso che le ragioni siano soprattutto di tipo culturale, perché nella mentalità del giocatore coreano non è contemplata la dimensione sociale del videogioco: perlopiù è una passione che si pratica in solitudine, reclusi in stanze buie per giorni o settimane, talvolta fino alla morte per inedia. E anche se è chiaramente possibile giocare con altre persone, lo si fa sempre seduti davanti a uno schermo, protetti dall’ambiente esterno e da una interazione effettiva con gli esseri umani. Del resto bisogna sottolineare che negli ultimi anni un numero non indifferente di donne ha iniziato a frequentare le cosiddette “Stanze del PC”, il che per certi versi ha minato alle basi il mito del maschio sudcoreano solitario e introverso, che fino a pochi anni fa costituiva il modello ideale di videogiocatore.
A questo punto la questione si interseca con la “socializzazione” (in senso assoluto) del videogioco, un’operazione in atto negli ultimi anni che vorrebbe da una parte impedire la “naturale” tendenza dei gamer a isolarsi per condurli “all’aria aperta”, e dall’altra (parallelamente) influenzare e politicizzare le trame e gli stili dei giochi per orientarle verso temi graditi ai liberal, come appunto il femminismo, l’omosessualità, l’immigrazione, la difesa delle “minoranze oppresse” eccetera.
Fino a questo momento, il tentativo di trasformare i videogame in corsi accelerati di queer theory o “intersezionalità” si è rivelato un fiasco non solo dal punto di vista politico o sociale, ma sopratutto commerciale. In particolare la “femminilizzazione” dei giochi ambientati durante la Seconda guerra mondiale ha prevedibilmente alterato l’umore dei fan più fedeli: si pensi a un pubblico al 99% maschile costretto a impersonare un soldato donna e a interagire con altre donne, tutte buonissime e intelligentissime, impegnate ad ammazzare i soldati maschi cattivi e stupidi. Ci sono poi altre conseguenze ancora più surreali: per esempio, la presenza di donne nere nell’esercito nazista, oppure, per allargare il campo, la censura di ogni svastica (in un videogioco ambientato nella Seconda guerra mondiale!) in quanto considerata un simbolo offensivo.
Volendo tuttavia ipotizzare che un giorno, a colpi di censura e propaganda, queste iniziative possano finalmente avere successo, resta un punto più fondamentale, inerente alla natura del gamer. Senza perderci in ulteriori generalizzazioni, citiamo solo l’esempio più recente, riguardante una visual novel cinese (Tiny Snow) nata nell’ambito indie. Il videogioco è diventato virale quando lo sviluppatore, di fronte alle critiche (da parte di una “giocatrice”!) per la scarnezza della trama, ha confessato di non aver mai “sperimentato l’amore” e dunque di non essere in grado di creare una storia romantica credibile. Credo che ciò dica quasi tutto sulle possibilità di trasformare anche questo settore (al pari del calcio, della pesca o del monachesimo ortodosso) in un hub strategico per qualche nuova “rivoluzione”. D’altro canto, qualora il mondo dei videogiochi venisse effettivamente “colonizzato” dal punto di vista ideologico, i maschi probabilmente cambierebbero interessi e le donne lo lascerebbero decadere (un po’ come è accaduto con la civiltà occidentale).
L’ultima frase vale da sola il senso del e il tempo speso per la lettura dell’articolo