Una sera di 66 anni fa Cesare Pavese venne ritrovato, come recitano le cronache di allora, in una stanza d’albergo «riverso sul letto, le mani rattrappite, l’una penzoloni fin quasi a toccare il pavimento, l’altra ferma sul petto».
Altro da aggiungere? Per chi ama gli encomi, tutto quello che avevo da dire l’ho detto nell’ultima settimana. In realtà questi pezzi sarebbero dovuti apparire dopo il mio suicidio, ma dato che non sono capace di programmare i post ho preferito non ammazzarmi. Si scherza, è chiaro: oggi non ci si può più nemmeno uccidere come una volta, semplicemente ci si “sacrifica” agli idola del momento (che ora mi pare siano l’economia e la sodomia – benvenuti nel benthamismo reale).
Ho scritto che Pavese è “morto di fi*a”: alla fine si muore solo di quello, anche se le implicazioni culturali, esistenziali e antropologiche del suo gesto furono molto più profonde di quelle che ispirano le canzoni alla radio. Il timore di Cesare fu di collassare nell’arte così come era già collassato nella vita. Perché nulla fu in grado di salvarlo? A tale questione sono appunto dedicati i pezzi precedenti, chi vuole se li legga (non so con quanto profitto).
Aggiungo soltanto una cosa che mi balena in mente ora: Furio Jesi afferma che Pavese fu un fervente osservante della religio mortis, e che per questo, a differenza di Mann e Rilke, non accettò il compromesso “estetico” (l’arte come salvezza, la letteratura come generatrice di miti ecc.). Ebbene: se ciò fosse vero, allora dovremmo accantonare Pavese anche come artista (del resto la cultura italiana lo ha già fatto). C’è però un elemento che Jesi finge di ignorare, ed è lo spazio di libertà che lo scrittore individua tra l’«immediato e originario contatto alle cose» e gli occhi del fanciullo, quell’insieme di «segni, parole, vignette, racconti» (ovvero simboli mediati) con cui il bambino entra in contatto con la realtà. Tale differenza paradossalmente rende Pavese molto più “umanistico” che non un Rilke, poiché il Nostro non confida né in una memoria prenatale né in una simbologia primordiale.
La ricerca artistica pavesiana potrebbe quindi essere interpretata come una “pedagogia del mito” produttrice di arte e, indirettamente, di salvezza, così come la sua biografia: sono infatti convinto (ma non voglio perder tempo a dimostrarlo) che Pavese riuscì a vivere il mito immergendosi in una nuova lingua. Lo provano la riuscita delle traduzioni (nonostante l’approccio “amatoriale” alla disciplina, o forse proprio per questo) e l’idea stessa di America che aleggia sui suoi scritti come promessa di una felicità reale, presente, possibile.
Ecco come far rifiorire la propria mitologia personale senza scendere nel regno dei morti: andare incontro a un nuovo universo di segni, parole, vignette, racconti. Dal punto di vista teorico tutto ciò funziona talmente bene che Pavese nel dopoguerra era già pronto a esplorare nuove letterature (con l’alibi del comunismo: la russa, la cinese…).
Il destino però è crudele, ed ecco che gli manda Constance Dowling. Una femmina straordinaria, un’attrice, un’americana: il culmine della perfezione, il compimento ideale del proprio percorso esistenziale e intellettuale. Trafficare troppo coi “materiali mitologici” impedisce di mantenere il giusto distacco verso la propria mitobiografia: difficile non andare fuori di testa quando poi un’illusione si rivela tale.
Dopo queste panzane, mettiamo due canzoni.
La prima è il classico tributo di Mario Pogliotti, “Un paese vuol dire non essere soli” (1960), fedelissima ai topoi e luoghi pavesiani (le colline, la “tampa”, la κατάβασις).
La seconda, “Cesare”, è un pezzo recente (2006), di tale Totò Zingaro (sinceramente non so chi sia), che canta i versi del poeta torinese Domenico Mungo (anche lui, mai sentito), e si colloca agli antipodi della precedente: non una sola riga del testo ha a che fare qualcosa con Pavese.
Eppure, a mio modestissimo parere, quest’ultima ballata riesce a esprimere une certaine idée del Poeta che quella del Pogliotti, seppur notevolissima, al contrario elude, confinata com’è in un manierismo che la rende sgradevolmente credibile non tanto sulle labbra di una Gigliola Cinquetti (che è innocente), quanto su quelle della nota “Milly” (colei che quando Pavese fu in vita non se lo filò nemmeno di striscio).
Enigmatica e malinconica quel tanto che basta da risultare inintelligibile a un orecchio femmineo, “Cesare” di Totò Zingaro rispecchia in modo più verace non solo la vicenda umana e artistica di Pavese, ma anche il suo ideale di virilità, così come traspare da una delle mie pagine preferite de La luna e i falò:
«E Nuto diceva che, prima cosa, suonando se ne portano a casa pochi, e poi che tutto quello spreco e non sapere mai bene chi paga, alla fine disgusta. “Poi c’è stata la guerra” diceva. “Magari alle ragazze prudevano ancora le gambe, ma chi le faceva più ballare? La gente si è divertita diverso, negli anni di guerra”.
“Però la musica mi piace” continuò Nuto ripensandoci, “c’è soltanto il guaio ch’è un cattivo padrone… Diventa un vizio, bisogna smettere. Mio padre diceva ch’è meglio il vizio delle donne…”
“Già” gli dissi, “come sei stato con le donne? Una volta ti piacevano. Sul ballo ci passano tutte.” Nuto ha un modo di ridere fischiettando, anche se fa sul serio.
“Non hai fornito l’ospedale di Alessandria?”
“Spero di no” disse lui. “Per uno come te, quanti meschini.”
Poi mi disse che, delle due, preferiva la musica. Mettersi in gruppo – a volte succedeva – le notti che rientravano tardi, e suonare, suonare, lui, la cornetta, e il mandolino, andando per lo stradone nel buio, lontano dalle case, lontano dalle donne e dai cani che rispondono da matti, suonare così. “Serenate non ne ho mai fatte” diceva, “una ragazza, se è bella, non è la musica che cerca. Cerca la sua soddisfazione davanti alle amiche, cerca l’uomo. Non ho mai conosciuto una ragazza che capisse cos’è suonare…”»
Buona domenica anche a te e grazie per il commento.Anche Cesare Segre sostiene quanto da te affermato, ma a mio parere questa lettura tende a colpevolizzare troppo lo scrittore: si potrebbero citare molte pagine per dimostrare che Pavese desiderò trovare proprio una donna "normale", ma che gli fu impossibile.Volendo però prendere per buona l'ipotesi che egli "se la andasse a cercare", dovremmo allora considerarla non tanto dal punto di vista personale, quanto da una prospettiva sociale: perché non solo il letterato aveva acquisito un nuovo posto in società (e non si capisce perché, mentre i suoi colleghi all'Einaudi potevano permettersi di sposare donne di elevata statura intellettuale, lui doveva andare a caccia di sartine), ma anche perché era l'idea di "donna" stessa ad assumere un diverso significato. Dunque le donne "normali", ovvero che non intendessero questa "normalità" come qualcosa di artefatto (una mediocrità piccolo-borghese per impedirsi qualsiasi "tentazione"), già allora cominciavano a scarseggiare.
Buongiorno Roberto e buona domenica. Grazie per aver scritto questi articoli su Cesare Pavese. Cesare Pavese essere umano con le sue debolezze e ossessioni. Cesare Pavese voleva sposarsi ma ha sempre inseguito donne incapaci di amare e inadatte a formare una famiglia. A mio modesto parere,Cesare Pavese non si sarebbe mai accontentato di una donna "normale" per formare una famiglia normale. Lui voleva una donna speciale che fosse come una specie di tributo a sé stesso, al suo ingegno e non poteva certo accontentarsi di una donna non tanto bella, che so una contadina, una operaia, una impiegata tutta casa, famiglia e chiesa. Secondo me, di donne "normali" ne avrebbe potuto avere quante ne voleva…Fabio