Das Ende des römischen Prinzips, scritto nel 1970, è uno dei volumi meno conosciuti di Reinhard Raffalt: in esso l’intellettuale bavarese traccia un quadro desolante (ma non disperato) della Chiesa post-conciliare. Chi comprende il tedesco (sfortunatamente quasi nessuno dei volumi di questo pensatore del dopoguerra è stato tradotto) può sfogliare il libello su archive.org. Fornirò di seguito un’ampia sintesi della tesi dell’Autore e del suo illuminante concetto di “principio romano”, che in fondo non è altro che un sinonimo di katechon.
Il volume si apre con un’affermazione tranchant: Das Ende des römischen Prinzips steht nicht bevor, es ist eingetreten, “La fine del principio romano non è imminente, è già avvenuta”. Si tratta di una conclusione paradossale nel suo stesso esprimersi, essendo posta al principio del testo. Ciò che intende dire Raffalt, chiarissimo sin dalle prime righe, è che nonostante ci siano segnali di “assestamento” dopo la confusione prodotta dal Concilio Vaticano II, il fatto che la Chiesa sia ancora in piedi, assieme al mantenimento dell’idea del “centralismo romano” (seppur nella forma “ammorbidita nei compromessi”, ma nella sostanza ancora tale), non significa che il “principio romano” non sia andato perduto, forse per sempre.
La Krise della Chiesa cattolica non nasce da un conflitto di opinioni, che una “comunità spirituale con una struttura organica” potrebbe benissimo affrontare senza sfaldarsi (come ha fatto per secoli, proprio in virtù del römische Prinzip), ma dalla “fredda inconciliabilità” di posizioni che rivendicando per se stesse l’egemonia sul governo dell’istituzione.
Ed è qui che l’Autore esprime subito la sua ammirazione viscerale per Roma, che in questa come in altre opere si coniuga senza soluzione di continuità con la sua biografia. Non posso fare a meno di riportare interamente queste pagine che esemplificano in maniera perfetta la questione del “principio romano”:
«Vivo a Roma da quasi vent’anni e, più della città in sé, amo la forza che racchiude: unire fede e diritto nella Pax Romana, che è sempre stata al tempo stesso un’utopia e una realtà. Trarre potere dalla religione è un’idea squisitamente romana, le cui origini risalgono a tempi precristiani. Il suo fondamento è la pietas, un concetto romano di virtù che non può essere tradotto accuratamente né con devozione né con pietà. La pietas potrebbe forse essere definita al meglio come la volontà di armonizzare la propria personalità con le leggi del cosmo, dello Stato, della famiglia, laddove l’intenzione è pia e la forma è colma di riverenza. Le forze dell’universo e della natura si muovono secondo leggi alle quali l’uomo dà una forma adattabile alla vita umana. Ciò dà origine al diritto naturale, che consente all’individuo di svilupparsi organicamente a vantaggio del bene comune nell’interazione tra libertà e dovere. La punizione imposta per la deviazione dal sentiero della legge serve a ristabilire l’armonia violata dell’insieme. Ad esempio, nell’antica Roma, un criminale condannato a morte aveva diritto a una sepoltura onorevole, poiché la sua morte espiava la sua colpa e ripristinava l’armonia nell’ordine mondiale. Un simile pensiero giuridico doveva necessariamente considerare la vita della società umana in modo organico. La connessione intellettuale dei membri di questa società doveva essere raggiunta attraverso la ragione, che a sua volta inventò la logica come mezzo funzionale. Per evitare che la logica si trasformasse un meccanismo spietato, erano necessari due fattori: l’humanitas, cioè l’accettazione della dignità e della debolezza della natura umana, e la pietas, cioè il riconoscimento di quelle forze spirituali nel mondo nel suo insieme che sono vanno oltre la nostra conoscenza e tuttavia determinano il nostro destino».
Da questa prospettiva, ciò che chiamiamo “tradizione” è una “presenza viva” che conforma in modo “continuo e ascendente” l’individuo alle leggi che governano l’universo: Roma si fonda su questa “complessa integrazione tra religione e diritto”, della cui eredità il cattolicesimo non solo si è fatto portatore ma l’ha condotta a compimento “mediante la verità della rivelazione”:
«L’esigenza di armonia con le leggi del cosmo è stata soddisfatta dalla Chiesa attraverso la sicurezza del comandamento divino, che trova il suo coronamento nell’amore».
La ribellione della Chiesa alla tradizione con il Concilio Vaticano II (che ha fallito nell’assicurare ad essa uno “spazio vitale”) è, per Raffalt, una ribellione “al suo stesso centro”, in quanto riduce a “cupa reazione” uno dei pilastri del principio romano, non in quanto sia suscettibile di “trasformare gli uomini in un insieme di conformisti”, ma perché “concepisce la storia come un continuum“.
Il primo obiettivo polemico dell’Autore è, naturalmente, il cattolicesimo progressista, del quale elenca alcune istanze dell’epoca: necessità che il sacerdote diventi “operaio” (anche medico, avvocato, infermiere, lavoratore specializzato, preferibilmente con qualche risvolto “sociale”); devoluzione dei beni ecclesiastici allo Stato che provvederà a trasformarli in musei; abolizione delle prerogative del Pontefice oltre i confini di Roma e riduzione di tale figura a “vescovo” di una città con qualche privilegio onorifico.
Raffalt taccia questa visione di “anarchismo” (la definisce “utopia anarchica”, Anarchische Utopie), nonostante “la Chiesa cattolica, invece, sia stata finora gerarchica e, secondo la volontà del Concilio, dovrebbe rimanere tale” e la ricollega a una compromissione con lo spirito dei tempi:
«Per secoli la Chiesa ha cercato di rendere più sopportabili le circostanze attuali per i propri credenti attraverso le promesse del Vangelo, la consolazione dei sacramenti e lo splendore della liturgia. Così facendo, si basava sul presupposto che all’uomo non fosse stato dato di diventare, in carne e sangue, l’essere perfetto che gli era stato promesso di essere alla fine dei tempi».
Le domande fondamentali dell’esistenza tuttavia rimangono sempre le stesse: “Esiste Dio? Cosa accade dopo la morte?”. Anche le masse islamiche, induiste e buddiste sono alle prese con spinte centrifughe, alle quali la Chiesa non può rispondere con la costruzione, seppur meritevole, di ospedali, scuole, orfanotrofi e istituti di assistenza sociale, nel momento in cui i popoli rivolgono in egual modo tali richieste allo Stato e poi all’ideologia comunista “che concentra i suoi sforzi esclusivamente sull’uomo terreno”. L’Autore discute poi di un caso che conosce personalmente, quello dell’America Latina, riportando una discussione avuta con un alto prelato:
«Il bisogno di salvezza delle persone non può aspettare; esige l’assistenza immediata della Chiesa. Il cardinale allora mi risponde: “Sì, certo, deve arrivare un nuovo annuncio del Vangelo“. Quando gli suggerii di cominciare da quel punto [e non dall’assistenzialismo], restò in silenzio con un sorriso cortese. Sono ben lungi dal trarre conclusioni generali da questa conversazione. Ma mi sembra che nella coscienza della gerarchia si sia verificato uno spostamento di valori. La parte spirituale della nostra religione oggi viene compresa solo come conseguenza degli atti di amore cristiano un tempo necessari. […] Mi pare che la Chiesa sia giunta alla convinzione di poter realizzare la perfezione della vita temporale».
Questa illusione, che col senno di poi ha dimostrato tutta la sua inconcludenza, è per l’appunto una prima negazione del “principio romano”, che invece parte dal presupposto di “misurare la parte temporale dell’uomo in base al suo destino eterno”. Nella Chiesa cattolica contemporanea, “Roma non è più un nome sacro, ma un termine che provoca varie resistenze”. L’integrazione tra religione e diritto non è più possibile nel momento in cui vige la confusione tra autorità e potere, con un Papa (all’epoca Paolo VI) che non riesce in alcun modo a bilanciare la pressione degli opposti estremismi.
Montini, secondo Raffalt, non è in grado di “rendere giustizia” ai suoi predecessori Pio XII e Giovanni XXIII, dei quali è impossibilitato a seguire le orme. Da una parte, è controverso il paragone tra Papa Pacelli e Paolo VI, ma per l’Autore l’ammirazione di quest’ultimo per Pio XII lo portò a “cercare l’autodisciplina, il controllo totale della comunicazione, delle espressioni facciali e dei gesti”, fino a giungere a copiarne “lo stile prezioso e fiorito che riveste il messaggio di immagini attenuanti, traboccante di clericalismi semi-poetici che tolgono chiarezza senza aggiungere forza alla fede”.
Dall’altra, molte considerazioni su Giovanni XXIII si perdono nello spirito dell’epoca, che ormai è obiettivamente lontano. In estrema sintesi, Paolo VI provò a rappresentare un punto di incontro tra i due predecessori, ma non riuscì ad assumere come modello “l’intelletto indagatore” di Pio XII nel momento in cui respinse il suo metodo di governo, così come non poté mai eguagliare l’immagine paterna di Giovanni XXIII (anche per i suoi tormenti interiori, che ne impedivano di imitare “la spontanea spensieratezza che il mondo amava” in Roncalli), riducendosi a “un Papa che non vuole essere Signore [Herr, anche “Sovrano” se correlato a Herrschertum, ndt] e non può essere Padre“. Il risultato di allora è lo stesso paradosso in cui languisce la Chiesa odierna:
«[Paolo VI al principio del suo pontificato] probabilmente pensò che portare a una conclusione armoniosa il Concilio avviato da Giovanni XXIII sarebbe stato il compito più arduo. Non poteva prevedere che la fine del Concilio avrebbe rappresentato l’inizio delle sue disavventure. Con la nuova libertà sembrava che il progressismo avesse ottenuto una vittoria: la Chiesa non sarebbe mai più ricaduta nella rigidità a cui l’aveva costretta Pio XII. Solo pochi anni dopo, tuttavia, il Pontefice dovette rendersi conto che l’allora celebrato risultato del Concilio era già visto da una parte significativa della Chiesa come un baluardo dello spirito conservatore. Oggi non si parla più dell’aggiornamento [in italiano nel testo, ndt] compiuto dal Concilio, poiché da tempo si è passati a esigere un adattamento totale della Chiesa al mondo di domani. In mezzo a questo rapido sviluppo, il Papa ha il compito di tradurre le decisioni del Concilio nella realtà viva della Chiesa. Tuttavia, perfino il decreto esecutivo per la più liberale di queste risoluzioni gli avrebbe procurato solo l’accusa da parte degli antiromani di aver reso un ulteriore servizio alla reazione».
Incapace di respingere le insinuazioni degli oppositori, così come di mostrare la “potenza amorevole” roncalliana, Papa Montini “si dedicò con tutte le sue forze alla realizzazione di due grandi progetti: la riconciliazione con l’Ortodossia e la salvaguardia della pace nel mondo“. Nel primo caso, Roma si scontrò con la struttura tradizionale delle Chiese ortodosse, vincolate alle forme statali in cui vivono, la quale lo obbligò a una revisione della posizione vaticana nei confronti degli Stati di dottrina comunista, in particolare dell’Unione Sovietica.
Tale dialogo portò in una prima fase all’enciclica Populorum progressio, nella quale Paolo VI prende nettamente le distanze dagli stili di vita del tardo capitalismo, collegando la propria condanna alla speranza che la situazione dei cattolici negli stati comunisti sarebbe migliorata. La politica utilizzata come “via di fuga” per Raffalt accrebbe il risentimento degli “anti-romani” e rafforzò la quella fatale confusione di autorità e potere che impedisce alla Chiesa di rispettare il principio romano.
A tale sviluppo è collegata la questione della pace, che attribuiva un’autorità morale al Pontefice da parte del “mondo non cattolico”, e che si concretizzò in iniziative altrettanto fallimentari, come l’incapacità di fungere da mediatore per l’ONU nella questione del Vietnam, che valse a Paolo VI di nuovo le accuse di “politicizzazione” del proprio ufficio e di sua riduzione a “carica onoraria”.
Il volume si conclude con un disilluso appello ai “moderati” e alla difesa del principio romano, che è in definitiva un Harmonie-Prinzip, invitando i fedeli a ripartire da una conversione interiore:
«Sforzarsi di raggiungere un’armonia costante tra gli opposti della vita, tra le imperfezioni del tempo e la verità rivelata, con pia intenzione e riverenza, non può essere comandato dall’autorità. L’individuo deve metterlo in pratica nella sua esistenza per mantenerla in armonia con la vita della Chiesa nel suo insieme. […] In questo senso, l’autorità non è coercizione, ma il contrappunto tra la melodia del cielo e il corso del mondo che crea armonia».
L’istanza si chiude in maniera drammatica e profetica:
«Se questo non dovesse riuscire, se ciò che ha determinato la forma della Chiesa fino ad ora venisse completamente abbandonato, allora vorrei che il Papa lasciasse Roma e si recasse a Gerusalemme per costruire lì, presso la tomba di Cristo, una Chiesa dell’umiltà, completamente diversa da quella che trova così sovrumanamente difficile da mantenere nella Santa Sede. Questa è ancora un’utopia. Il dramma però ha già raggiunto un punto alto, e il dado è già stato tratto sul principio romano».
Raffalt nel corso della sua trattazione propone un paragone tanto suggestivo quanto angosciante, quello tra la Kakania di Robert Musil e il Concilio Vaticano II, secondo cui quest’ultimo diventerebbe quella “Azione Parallela” che prosegue all’infinito nella sua inconcludenza anche alla luce del tramonto dell’Impero Austro-Ungarico. Se “lo zelo rivoluzionario della Chiesa di domani” e “la testardaggine fossile della Chiesa di ieri” lacerano la Catholica, l’unica prospettiva di salvezza rimane ancora il rispetto del principio romano, in virtù del quale “la storia e il presente sono una cosa sola”.