Già nel XII secolo Ottone di Frisinga parlava delle genti milanesi come del fior fiore di un’Italia che “ancora imita l’accortezza degli antichi Romani nell’assetto delle città e nel reggimento della cosa pubblica”, e riconosceva nella Milano stessa il simbolo di un popolo orgoglioso seppur riottoso all’adorato Barbarossa (“Benché [gli italiani] si vantino di vivere secondo le leggi, non obbediscono alle leggi”), incorso nello sdegno del sovrano perché forte della qualità dei suoi uomini e della propria prosperità.
Milano ha sempre avuto queste caratteristiche di indipendenza e fierezza: ancora a metà degli anni ’50 del secolo scorso Guido Piovene, nel suo Viaggio in Italia, parla di “una città poco adattabile ad un regime come il nostro, eternamente ambiguo tra il socialismo e l’iniziativa privata“.
Una capitale che, ancora a ridosso del cosiddetto “miracolo economico” (in realtà dovuto proprio a una riuscita commistione tra pubblico e privato, non piovuta dal cielo come lascerebbe a intendere l’espressione), era già disseminata di cumenda che si lamentavano di Roma Ladrona (Il Governo l’è una bestia) e si consideravano gli unici “produttori della ricchezza” nel Bel Paese, riducendosi a quel ruolo di macchiette che, come ricordava allo scrittore Raffaele Mattioli, “si lagnano se il Governo interviene, e più si lagnano se non interviene”. Imprenditori prenditori.
Questo modello dinamico aveva comunque funzionato -si può dire- per secoli, e non pare un caso che la distruzione a livello nazionale sia partita proprio dalla “capitale morale”, che nel momento in cui lo divenne de facto con il golpe di Mani Pulite, abdicò al suo primato per ridursi a una avanguardia di facciata, un gioco di ombre cinesi che ha mostrato già da tempo i suoi limiti sia dal punto di vista economico che politico.
Il colpo di grazia a mio parere è giunto con i lockdown, alla quale persino la giunta (o junta) piddina aveva istintivamente cercato di resistere, affinché la città non prendesse consapevolezza del suo nulla e si scoprisse talmente poco amata da poter essere lasciata al suo destino nel giro di un fine settimana. Da lì la corsa verso il degrado si è accelerata, e ogni mese la milanesità incorpora nella sua essenza nuove umiliazioni.
Non so per quanti secoli ancora la mia Milano dovrà restare sotto un singolare dominio tecnocratico-sinistroide, così “europeo” nello slancio verso le dissoluzioni londinesi, parigine, berlinesi e brussellesi. D’altro canto, l’unica cosa che potrà fare un’eventuale centro-destra minimamente presentabile è infine accollarsi tutte le responsabilità di lustri e lustri di piddinismo reale, in uno sterminato almanacco di lamentele che i guardiani della voce troveranno in ultimo il coraggio di formulare: i furti in metro e la sporcizia, la ghettizzazione e la gentrificazione, la disoccupazione e il caro vita, i monopattini e le ciclabili, l’immigrazione e l’emergenza abitativa e la microcriminalità e tutta l’altra merda.
Il più microscopico briciolo di legalità andrà conquistato a lacrime e sangue, con una guerra culturale talmente feroce che lascerà entrambi gli schieramenti distrutti nelle rispettive provocazioni. Sono sempre stato convinto che prima o poi i milanesi, dopo qualche decennio di quaresima (o ramadan, se vi par meglio), sarebbero tornati ad apprezzare le buone cose di pessimo gusto come l’ordine pubblico, le strade pulite, la cementificazione, gli sgomberi violenti, la dominazione asburgica eccetera. Ormai però mi sembra si sia giunti al punto di non ritorno.
In questo abisso si impone perciò una riflessione generale sul perché Milano non abbia più niente da dire all’Italia e all’Europa, nonché al mondo intiero (tralasciamo al momento il sistema solare). Ammetto che i miei criteri per giudicare se valga la pena vivere in una città sono piuttosto leopardiani (non una cosa di cui vantarsi), e possono naturalmente differire da quelli di chi vuole ancora sacrificare la propria vita per restare meneghino. Tanto vale, però, enunciarli senza troppo indugi. Per farla breve, li riduco a tre: 1. Opportunità di diventare uomini; 2. Possibilità di star bene da soli; 3. Qualità della letteratura.
Riguardo al primo punto, ogni iniziativa a livello istituzionale, così come qualsiasi notizia di cronaca o costume, mi conferma continuamente che a Milano si può sopravvivere solo con la mentalità di un sedicenne. Se il massimo della propria prospettiva è comprarsi il fumo a Parco Sempione con la paghetta settimanale vita natural durante, allora si è nel posto giusto: la vita a Milano si riduce di conesguenza a una augmented reality della propria adolescenza. Qualcuno potrebbe trovare tutto ciò poetico (per certi versi lo è), ma l’incantesimo presto si spezza. La bohème di massa è logorante, la condizione di “eterno figlio” a un certo punto ti fa desiderare di diventare padre altrove, in un luogo dove è ancora consentito esserlo.
E qui veniamo al secondo punto: non può considerarsi civile quella città che non rispetta i diritti dei solitari. Per carità, le fratrie sono bellissime e affascinanti, ma quando diventano la norma, allora è meglio levare le tende. Dovrei raccontare troppo di me stesso per affrontare degnamente la questione, e al momento non credo sia opportuno; perciò saltiamo al terzo punto: la cattiva letteratura.
Gli scrittori milanesi delle ultime generazioni sono dei segaioli lupi solitari che strumentalizzano l’arte per fingere di non esser soli. Costoro hanno portato inconsciamente alle estreme conseguenze le geremiadi del Recanatese: «A Milano non vi si può fare altra vita che quella del letterato solitario».
Anche questa osservazione, all’apparenza insignificante, dimostra che in città l’unica ambizione rimane quella di baloccarsi con le proprie mitologie individuali, nella speranza di crearsi un pubblico come surrogato di “popolo”. Un giorno sarà interessante indagare su come la cattiva letteratura abbia prodotto sia Tangentopoli che l’estetica da apericena, e sulla segreta affinità tra i due fenomeni come sintomi di una “incomunicabilità” reale, che è appunto irrappresentabile (ma l’estetica dell’irrappresentabile è altra cosa, essendo mediata, riflessiva, non vissuta).
Uno stock character diffuso in questo tipo di letteratura (non faccio nomi per “carità di patria”), è quello della donna refugium peccatorum: sfido chiunque a trovare una femme fatale nella letteratura milanese degli ultimi trent’anni (il cinema, contando ancora su un pubblico, deve essere per forza più sincero). Sono tutte Mary Sue: la femmina irreale, complice nei gusti e nelle illuminazioni, che attraversa tutto il “romanzo di una città” e sublima in entusiasmanti epifanie metropolitane la mediocrità delle scritte sui muri o la vacuità delle rapsodie da domenica pomeriggio.
Bene, tale donna non esiste (almeno non a Milano) ed è solo con questa consapevolezza che si percepisce la profonda dissociazione dei milanesi: qui peraltro stiamo parlando di un livello alto, ma immaginate quel che accade nei bassifondi della coscienza, tra chi si spacca la schiena per “farcela” o chi crede di aver trovato Lamerica. Purtroppo persino la psicologia è passata di moda, altrimenti chissà quanti spunti d’analisi troverebbe anche nella più banale delle conversazioni da tram, nelle quali l’unico momento di empatia tra un milanese e l’altro è solo il desiderio di andarsene via.
Voglio concludere con il pensiero di due lettori che, a differenza mia, hanno mantenuto i piedi per terra nelle loro analisi. I commenti risalgono ad anni fa e giunsero a generoso corredo di un mio ridicolo pezzo il cui titolo dice già tutto (apprezzate che vi risparmi la fatica di andare a rileggere): Milano è diventata una distopia piddina (4 Giugno 2018).
Il primo si firma La verità contro la menzogna (complimenti, lol) e sostiene quanto segue:
«Milano sta vivendo la sua Belle Époque di stampo giolittiano, è un’effimera primavera. Tuttavia, se mi è concesso dire quel che so dal profondo senza vergogna o imbarazzo ad essere giudicato, direi che Milano non è così preferibile ad altre città e che la sua attenzione è decisamente sopravvalutata da alcuni media (quelli che fanno più chiasso, facendo finta che non soffrano dell’attuale crisi editoriale di cui non parlerò qui).
Mi concentrerò più sulle esperienze vissute: laurearsi a Milano ad una pubblica o privata può pur andare bene ma di certo non sei il primo della classe in nessun caso (nessun ateneo milanese – neanche il suo omonimo Politecnico che è l’ateneo top di Milano – può ritenersi the best) rispetto a numerosi ed inaspettati ma ugualmente temibili concorrenti da Torino, Venezia, Ancona, Firenze, Roma e Napoli.
Sembra poco, ma già questo smonta la loro superbia. Ci sono tanti posti dove laurearsi per occuparsi meglio e prima, e pure con più prospettive professionali!
Milano è junk-job, offre lavoretti sfigati per neolaureati troppo tronfi per chiedere aiuto dalle loro merdose situazioni dove vengono relegati da recruiters senza scrupoli o docenti disonesti.
I vertici delle carriere si fanno o all’estero o più a Sud. Non è un caso che frotte di ingegneri dal Polimi scappino verso Lazio e Puglia se non paesi dell’Asia… Non è un caso che le cattedre vengano assegnate per lo più a dottori ed assegnisti dal centro-Sud Italia…
Non è un caso che diversi laureati lì in economia cerchino raccomandazioni per trovare lavoro in città politicizzate come Genova (nota non certo per vantare eccellenze sotto nessun profilo) e Firenze (nota soprattutto per le sue università che sordidamente a detta di tutti i suoi migliori laureati fanno schifo), dove puoi pure essere un ritardato ma se con la tessera del PD ti fanno lavorare…
Non è un caso i migliori laureati nelle branche mediche ed umanistiche scappino verso Roma e Napoli (persino alcuni agenti di finanza e consulenti scappano)…
Non è un caso che girino pubblicità spam nelle mail tramite Almalaurea di atenei milanesi famelicamente in cerca di studenti per i loro corsi che nessuno vuole (perché si trova lavoro ugualmente senza, come si resta disoccupati ugualmente senza)…»
Il secondo invece si nomina Milo Rumina i Sassi (ancora meglio) e scrive che:
«Contentissimo di essermene andato da Milano nell’ormai lontano 2008. Ormai era diventata ancor più di prima la capitale di mafialand , con un contorno di barboni ovunque, di colletti bianchi che lavorano per i peggior globalisti e tutta quella merda radical chic che parla di rivoluzione con un aperitivo in mano dal terrazzo di un superattico in via della Moscova, mentre un idiota pseudo progressista delira sulla bellezza della Milano ipermulticulturale e multietnica da uno dei nuovi orrendi palazzi presenti nel mio ex quartiere, l’Isola . Io ho fatto in tempo a vedere la vera Milano , quella degli anni ’70 e ’80 e la Milano di oggi ve la lascio volentieri. Lo dico e scrivo con dieci anni di ritardo , ma meglio tardi che mai: addio merde , voi Milano l’avete solo rovinata».
Anch’io ho lasciato Milano col cœur in man: è un trauma profondo che nessun migrante, immigrato o emigrante potrà mai capire. Perché non c’è stata una guerra, una faida, un bombardamento o qualche altra tragedia, non c’è stato alcun baccano o rombo, ma solo un piagnisteo, un lamento. È finita così, com’era cominciata: non potrò che ritornare solo come in un sogno, per riscoprirmi dannatamente eterno adolescente. Quale uomo degno di tal nome tuttavia accetterebbe un destino del genere?