Riduflazione, un concetto a cui dovremo abituarci

Nell’anglosfera si parla da anni di shrinkflation, crasi di shrinkage (contrazione) e inflation, cioè della strategia messa in atto dalle aziende per ridurre la quantità del prodotto venduto senza variarne il prezzo. Il fenomeno è naturalmente diffuso anche in Italia, nonostante sia raro che la gente se ne accorga: sarà però capitato a qualcuno, se non di osservare direttamente il calo di grammatura o il ridimensionamento delle confezioni (che però si tende a conservare identiche per ingannare l’acquirente), a notare almeno che alcuni prodotti le cui confezioni prima contavano 5 o 10 unità oggi ne contano 4 o 9 senza diminuzione del prezzo.


Sui media italiani attualmente si usa ancora l’espressione inglese per descrivere tale processo (considerato peraltro una semplice “tecnica di marketing” non passibile di sanzione), preso atto tuttavia che dovremmo appunto abituarci a esso, tanto varrebbe tradurlo con riduflazione come hanno già fatto spagnoli (reduflación) e francesi (réduflation). Finora solo il portale Il Sussidario, nel 2017, ha deciso di adottare tale espressione, descrivendola come “vendervi minor quantità dello stesso prodotto al prezzo precedente” e ricordando che “dal 2012 nel Regno Unito oltre 2500 prodotti hanno subito una riduzione di contenuto ma non di prezzo”.

Questa pratica viene messa in atto dalle aziende sia per incrementare i margini di profitto sia per reazione agli aumenti di tasse sui beni di consumo: nella strategia di marketing rientra anche far credere al consumatore di aver fatto ogni sforzo per mantenere i prezzi stabili.

Nel nostro Paese la riduflazione è stata adottata anche dalle compagnie telefoniche, che si sono inventate un anno di 13 mesi rinnovando le offerte “mensili” ai clienti ogni quattro settimane. L’Antitrust aveva multato Fastweb, Tim, Vodafone e Wind con 228 milioni di euro ma il Tar ha successivamente annullato le sanzioni nonostante le aziende avessero “fatto cartello” per ridurre tutti i mesi dell’anno a 28 giorni.

I politici d’altro canto sono al corrente del “trucco”: come ha appena dichiarato Jen Psaki, portavoce dell’Amministrazione Biden, “è sleale e assurdo che che le aziende aumentino i costi per i consumatori in risposta ai nostri aumenti di tasse”.

La pratica, come notavamo, non può però essere considerata illegale; e qualora lo fosse, nel clima attuale le multinazionali troverebbero facili scappatoie nel politicamente corretto, come del resto è già accaduto: ricorda infatti il portale Money.it che “la Kellogg ha giustificato il taglio del peso dei Coco Pops con la diminuzione dello zucchero presente nella confezione, mentre Unilever – proprietaria del marchio Algida– ha parlato della necessità di rivedere al ribasso l’apporto calorico dei gelati”.

E anche Wikipedia sottolinea che le aziende “distolgono l’attenzione dal restringimento del prodotto con una comunicazione basata sul less is more, per esempio rivendicando i benefici per la salute da porzioni più piccole o i benefici per l’ambiente dalla riduzione degli imballaggi”.

Negli Stati Uniti, in concomitanza con la contrazione dei consumi causata dalla gestione della pandemia e con le ondate di pseudo-salutismo e pseudo-ecologismo di cui sopra, il fenomeno sta prendendo una accelerazione inedita nell’ultimo periodo: 4chan, una associazione di consumatori americana, ha raccolto una serie di immagini che testimoniano addirittura come i prodotti non ancora ridimensionati nei supermercati d’oltreoceano campeggino in bella mostra accanto alle confezioni “riduflazionate”. Cambiano imballaggio, quantità e peso: l’unica cosa a non cambiare è il cartellino del prezzo.

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