Robert Faurisson nella periferia esistenziale

Robert Faurisson è morto il 21 ottobre, e questa è forse l’unica cosa che si dovrebbe dire per evitare persecuzioni giudiziarie e gogne mediatiche: è noto infatti che da decenni lo studioso è considerato il “padre del negazionismo”, espressione con la quale si intende naturalmente indicare l’unica “negazione” storica punita dalle leggi di una trentina di Paesi, quella dell’Olocausto ebraico.

La stampa, come prevedibile, si è scatenata nel definirlo come un ciarlatano neonazista, non riconoscendo alcuna dimensione intellettuale al suo lavoro, ma al contempo tacendo a bella posta su certi aspetti della sua biografia politicamente poco corretti: al di là del rapporto con Noam Chomsky, che pur di difendere la libertà d’espressione del professeur ha sopportato un lungo boicottaggio da parte degli editori francesi, il momento più importante nella carriera del negazionista è stato l’incontro con il comico Dieudonné.

Il sodalizio politico-artistico nacque oltre dieci anni fa nell’area ruotante attorno al Parti Antisioniste, formazione politica dall’esistenza effimera (si presentò solo alle europee del 2009 e alle legislative del 2012) che ha però rappresentato in Francia un fondamentale punto d’incontro tra islamo-gauchisti, estremisti di destra, terzomondisti e maurassiani. È in quell’ambito che l’umorista di origine camerunense cominciò a interessarsi dello storico maudit, finendo per coinvolgerlo direttamente nei suoi spettacoli: nel dicembre 2008 lo presentò per la prima volta al suo pubblico sul palco dello Zénith, facendogli consegnare nelle mani della sua spalla conciata come un sopravvissuto dai campi di sterminio un “premio per l’infrequentabilità e l’insolenza” (sic): per il siparietto Dieudonné venne condannato a 10.000 euro di multa.

La liaison non finì comunque quella sera: il duo Dieudonné-Faurisson continuò a ideare sketch così provocatori da venire spesso censurati da YouTube (l’unico media sul quale del resto sono stati trasmessi, al di là dei “bonus” dei dvd degli spettacoli per i quali erano stato creati). Come tributo, il comico ha pubblicato sul suo canale un video di circa dieci anni fa, nel quale lo storico interpreta “Simon Krokfield”, un immaginario sopravvissuto dell’olocausto, che commenta l’oltraggio antisemita rappresentato proprio dallo spettacolo dello Zénith.

Su internet si possono reperire altri “intermezzi” di questo genere, come un a Charlie Hebdo in tempi non sospetti (si fa per dire) e una canzonaccia improvvisata sempre sul leitmotiv dell’oltraggio alla Shoah («Shoananas | Tu me tiens par la shoah | Je te tiens par l’ananas»).

Su tutto questo lascio ai lettori le conclusioni che preferiscono; per quel che mi riguarda, vorrei esclusivamente concentrarmi sulla “forma” della tardiva fortuna di Faurisson: pur essendo sempre stato uomo di “scandali”, dalle sue provocatorie riletture di Rimbaud e Lautréamont alla sterminata (absit iniura verbis) bibliografia revisionistica, l’istante in cui lo studioso è davvero balzato alle cronache è stato il momento in cui Dieudonné gli ha raccattato dalle banlieue una folla acclamante.

Per quanto la politica francese sia surreale, senza la ristrutturazione multietnica delle periferie occorsa nei decenni precedenti sarebbe stato impensabile che un ottantenne dalle simpatie destrorse (nonostante le ripetute attestazioni di “apolicità”) venisse portato in trionfo da una massa di immigrati di seconda e terza generazione. Invece è stato proprio il motivo dell’antisionismo a fare da collante tra questi mondi diversissimi: da una parte un milieu contiguo a quello degli attentatori alla redazione di Charlie Hebdo (non sto ovviamente sostenendo che abbiano fatto fisicamente parte del seguito di Dieduonné!), dall’altra un vecchietto che si definisce “gangster intellettuale” e proclama di esser stato trattato in Francia “come un palestinese a Gaza”. Sembra quasi la scena di uno di quei film americani in cui un giovane maestro bianco e ottimista viene mandato in una scuola del ghetto dove tutti gli studenti sono neri…

Il riferimento alla scuola non è casuale perché il silenzio rispettoso con cui la “lezione” di Faurisson è stata accolta da quel tipo di pubblico fa tornare in mente lo stato dell’istituzione in Francia, che ha ormai oltrepassato il “livello di guardia”, specialmente in quelle periferie dove i figli della società multietnica si riconoscono in valori come la violenza, il vandalismo, il calcio, il rap e, per darsi un tocco di onore, l’estremismo islamico (anche nella forma blanda del palestinismo).

Faurisson è stato probabilmente l’unico “maestro” rispettato da questa moltitudine in cerca di una identità: non vorremmo che, al di là della demonizzazione (o proprio grazie a questa) esso diventasse in un futuro sempre più prossimo il solo modello di “pedagogo” proponibile nelle periferie esistenziali che hanno tanto successo nella retorica di chi sta in alto, ma che viste da vicino assomigliano a una carovana di monatti.

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