Site icon totalitarismo.blog

Roberto Calasso: in morte di uno sciamano

Roberto Calasso in India nel 2010

Parlare di Roberto Calasso, appena venuto a mancare in quei di Milano, sarebbe talmente semplice da risultare nella pratica impossibile: la tentazione è quella di andare di scrittura automatica e dire le tre-quattro cose che tutti si aspettano. Forse è però ancora troppo presto anche per questo: ora è solo il momento del pettegolezzo, non quello di stampo sainte-beuviano da lui tanto amato, ma del tipo confacente all’encomiastica tradizionalmente fantozziana della nostra industria culturale, che non può far altro che ridurre Calasso a pendant serioso dell’ospite cazzone di Fabio Fazio o tutt’al più a “riscopritore” di Maigret.

Partiamo allora proprio da Simenon: evidentemente ci volevano le tinte pastello adelphiane per restituire a una Italia infatuata del faccione bonario di Gino Cervi l’immagine reale del detective-sacerdote che libera la comunità dal contagio attraverso un φαρμακός. Il punto è che l’intero catalogo della creatura calassiana può essere interpretato in chiave sacrificale: si potrebbe partire da qualsiasi “anello del serpente” per imbastire un necrologio psico-complottista. E allora dovremmo insinuare che Calasso abbia pubblicato tutto Simenon per offrire una rappresentazione plastica della “sua” religione, nella quale il rituale avesse una valenza effettiva e non fosse mera teatralità (se non nella misura in cui tale teatralità abbia un’efficacia intrinseca): un culto per cui sia necessario un sacrificio umano per liberare Tebe dalla peste.

Maigret dunque partecipa dello stesso ouroboros di René Girard, i cui magnifici saggi impongono una visione dilemmatica del cristianesimo tra abolizione del sacrificio (con l’inevitabile riduzione della fede a mero fatto sociologico) e usurpazione dello stesso (con conseguente negazione della verità della Risurrezione). Certo, c’è sempre il sospetto che si tratti, in generale, solo di letteratura, una cosa che in sé “non fa danno” (come amava ripetere il Nostro, il migliore argomento in difesa della lettura in quanto tale è quello formulato da Robert Walser: “Chi legge, nel momento in cui legge, non fa danno”).

Forse l’inganno supremo dell’adelphismo è proprio questo: costringerci a detective-sacerdoti in una logica sacrificale che ci vuole svelatori di un complotto che non c’è, nel quale questa volta è il de cuius a fungere da capro espiatorio e “riparare il mondo” con la sua scomparsa incruenta, ma che noi renderemmo tale attraverso un vero e proprio martirio della memoria (col senno di poi, Los detectives salvajes di Roberto Bolaño -autore che Calasso voleva tutto suo e strappò di prepotenza a Sellerio- può essere letto come uno sberleffo ai nostri esercizi spirituali messi in scena da Artaud).

Ciò che intendo dire è che non ho alcune intenzione di maramaldeggiare. Anche per questo ho acconsentito alla richiesta di un amico, giornalista di destra ormai affermato, di “prendere ispirazione” da qualche mio pezzo sul Venerato Maestro, seppur con la consapevolezza che li utilizzerà per trarne un santino della cultura alternativa e controcorrente (a’ fascio). Ma sì, salviamo le apparenze, facciamo di Calasso una versione frufru di Ciarrapico e morta lì (absit iniura verbis).

Del resto, mica vorremmo parlarne come uno sciamano che ha fatto della dissoluzione un rituale di massa, che ha contributo a creare un état d’esprit nel quale il sacrificio umano non è più tabù, che ha instillato nell’inconscio collettivo la possibilità che il mito possa servire ancora come velo pietoso a qualsiasi abiezione. Alla fine, era solo uno che stampava libri, o no?

Exit mobile version