Molto spesso i lettori manifestano una qualche perplessità nei confronti della mia tendenza a citare spesso autori americani, che per quanto “politicamente scorretti” e scomodi andrebbero comunque posti in secondo piano rispetto alle “glorie nazionale”. Potrei condividere tale argomento se non fosse che, sfortunatamente, nel nostro Paese una perpetua ghettizzazione di certe tematiche impedisce ancora quel felice connubio tra accademia, estremismo e bibliomania che talvolta fa saltar fuori un “nazista dell’Illinois” del quale non si può non parlare.
Ad ogni modo, visto che mi si chiede pure di trovare il corrispettivo italiano del saggista yankee “figo” (che noi giovani quarantenni definiremmo “basato”), così su due piedi mi verrebbe da fare il nome di Roberto Marchesini, che oltre a essere un amico è un nome che talvolta mi piace citare.
Ovviamente non sto parlando dell’omonimo che potete trovate su Wikipedia, il quale, senza offesa, è un filosofo del “postumano” -detto con tono fantozziano- perfettamente integrato nel mainstream. Sto parlando invece del Roberto Marchesini che ha scritto volumi ecellenti sul liberalismo, gnosi e sessantotto.
Proprio di quest’ultimo libello vorrei parlarvi, perché nonostante la “destra” negli ultimi decenni abbia offerto letture originalissime degli “anni formidabili”, il saggio Sessantotto. Illusioni e inganni (Sugarco, 2023), compatto e combattivo, inquadra la tematica in un contesto nazionale e internazionale piuttosto ampio, senza tuttavia mai scadere nel cosiddetto “complottismo”.
Ora, proverò a farvi capire bene cosa intendo: prima di tutto, la mia recensione al volume di Marchesini sarebbe dovuta uscire due anni fa per una “rivista” (così nessuno capisce) che però me l’ha rifiutata perché in essa evidenziavo un po’ troppo la “spregiudicatezza” del Nostro nel parlare degli ebrei.
Si sa come vanno certe cose, e del resto il motivo per cui sto citando il mio amico non è per blandirlo (grazie al cielo almeno a lui non devo soldi) o che altro (anzi, semmai rischio indirettamente di metterlo in difficoltà, ma essendo based se ne frega), ma proprio perché egli è probabilmente l’unico Autore italiano minimamente “integrato” (si fa per dire) che parla della questione ebraica infischiandosene del mos maiorum post-olocaustico.
Ecco, col senno di poi gli amici della “rivista” hanno probabilmente fatto bene a scartare la mia recensione, perché forse si sarebbe corso il rischio di ridurre un volume ricco di spunti e in grado di tracciare nuove prospettive a un pamphlet “antisemita”.
Naturalmente, proprio perché non stiamo parlando di una realtà “sottoculturale”, Marchesini discute dei rapporti fra sessantotto ed ebraismo con una certa eleganza, analizzando sia la situazione polacca (una sua specialità da tempi non sospetti), sia l’influenza che l’esistenza stessa di uno Stato ebraico ha imposto sul contesto politico-culturale dell’Europa, sia infine, per spostarsi verso gli USA, le modalità ambigue con cui le organizzazione ebraiche hanno tentato di controllare il fenomeno a volte senza particolare successo (Marchesini ha persino l’ardire di accennare alla diffusione dell’antisemitismo tra gli afro-americani -citando peraltro questo articolo-, argomento verboten ormai da oltre mezzo secolo per la polemistica nazionale).
Al di là di ciò, il volume rappresenta principalmente una disanima impietosa di quella che è stata a tutti gli effetti la più importante “rivoluzione colorata” della Repubblica, la quale ha prodotto “effetti devastanti sulla scuola e sulle donne”, nonché la proverbiale “fatica di Sisifo” per qualsiasi studioso voglia approcciarsi a essa senza lasciarsene invischiare. Credo che Marchesini sia riuscito a nominare il Nemico, spaziando da Praga a Berkley fino a Valle Giulia, come pure dai servizi segreti alla Scuola di Francoforte, nonché dalla pornografia alla musica folk.
Dunque consiglio la lettura anche se con anni di ritardo, ma si sa che prima o poi la polemica sul Sessantotto tornerà sempre di moda, e dunque tanto vale prepararsi con largo anticipo ai fasti del 2028, nonché del 2068 e del 3068, quando ibridi post-umani (o, per meglio dire, sub-umani) prodotti dal bioleninismo predicheranno la perfetta compenetrazione fra tecnica e giudaismo programmando i nostri cervelli microchippati all’occorrenza.