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Roma contro Gerusalemme: duemila anni di inimicizia

Pochi sanno che nel 1948, una volta costituito lo Stato d’Israele, gli ebrei ripresero a passare sotto l’arco di Tito, considerato “maledetto” dal 70 d.C. L’inimicizia tra Roma e Gerusalemme non si è però spenta con quel gesto simbolico, se ancora oggi un rabbino americano “conservatore” può raccontare orgogliosamente di aver bestemmiato il nome di Tito in ebraico, aramaico e latino durante una vacanza in Italia.

Il gesto ha un evidente significato simbolico, oltre che metapolitico: Israele (inteso in senso lato) rappresenta un crogiolo di aspirazioni millenaristiche, che non nuocciono comunque all’immagine “laica e democratica” che propaganda. Tuttavia, a furia di scherzare con simboli e mitologie, si finisce per crederci davvero.

D’altra parte, innumerevoli sono le fonti greco-latine che pongono la Romanitas in antitesi al giudaismo. Le accuse classiche sono quelle di misoxenia, misantropia ed empietà verso gli dèi. Possiamo citare brevemente qualche passaggio dagli autori più noti.

Strabone (Geographica, XVI, 2, 35-37) dopo aver elogiato Mosè in contrapposizione all’idolatria egizia, accusa i sacerdoti suoi successori di aver mandato in rovina il proprio popolo tiranneggiandolo e traviandolo con la superstizione.

Filostrato di Lemno (De vita Apollonii Tyanei, V, 33):

«I Giudei sono insorti da tempo non solo contro i Romani, ma contro tutti gli uomini. Avendo adottato un modo di vivere non mescolato, e non avendo in comune con gli altri uomini né le mense né le adorazioni né i sacrifici, sono più distanti da noi [scil. Roma] di Susa e Bactra e dell’ancora più lontana India».

Cicerone (Pro Flacco, 28, 69):

«Ogni Stato ha la propria religione, o Lelio, e noi abbiamo la nostra. Persino quando Gerusalemme era in piedi e i Giudei vivevano in pace, la pratica di questi riti sacri era incompatibile con lo splendore del nostro impero, la dignità del nostro nome, i costumi dei nostri antenati. Tanto più ora che quella nazione mostra con le armi quali sentimenti nutre nei confronti della nostra sovranità. Quanto cara essa sia agli dèi, lo mostra il fatto che è stata sconfitta, venduta e resa schiava».

Seneca, nel De Superstitione (citato da Sant’Agostino, De Civitate Dei, 6, 11):  «Le pratiche di questo popolo scelleratissimo si sono diffuse a tal punto che ormai esse trovano accoglienza nel mondo intero. I vinti hanno imposto le loro leggi ai vincitori».

Plinio il Vecchio: «Iudaea gens contumelia numinum insignis» (Naturalis Historia, XIII, 46).

Petronio, Fragmenta XXXV:

Iudaeus licet et porcinum numen adoret
Et coeli summas aduocet auriculas.
Ni tamen et ferro succiderit inguinis oram,
Et nisi nudatum soluerit arte caput,
Exemtus populo, Graiam migrabit ad vrbem,
Et non ieiuna sabbatha lege premet.

Et cetera… Superfluo citare Tacito, Quintiliano, Giovenale o Giuliano l’Apostata, poiché le accuse sono le medesime: superstizione, empietà e odio verso le genti. È però necessario riportare un passo emblematico del De reditu suo di Rutilio Namaziano, nel quale il cantore della fine dell’Impero («Fecisti patriam diversis gentibus unam»), costretto dalle invasioni barbariche a rifugiarsi presso la natia Gallia Narbonese, durante il viaggio di ritorno incappa in un querulus Iudaeus nei pressi di Faleria (I, 375-398):

Egressi villam petimus lucoque vagamur:
Stagna placent saepto deliciosa vado.
Ludere lascivos intra vivaria pisces
gurgitis inclusi laxior unda sinit.
Sed male pensavit requiem stationis amoenae
hospite conductor durior Antiphate.
Namque loci querulus curam Iudaeus agebat,
humanis animal dissociale cibis.
Vexatos frutices, pulsatas imputat algas
damnaque libatae grandia clamat aquae.
Reddimus obscenae convicia debita genti,
quae genitale caput propudiosa metit,
radix stultitiae, cui frigida sabbata cordi
sed cor frigidius religione sua.
Septima quaeque dies turpi damnata veterno,
tamquam lassati mollis imago dei.
Cetera mendacis deliramenta catastae
nec pueros omnes credere posse reor.
Atque utinam numquam Iudaea subacta fuisset
Pompeii bellis imperioque Titi!
Latius excisae pestis contagia serpunt
victoresque suos natio victa premit.

In questi versi si racchiude il culmine della tradizione anti-giudaica romana. L’ebreo è dipinto come “animale asociale” che celebra festività vane e senza senso (frigida sabbata) e si separa dagli altri uomini anche per abitudini alimentari. Il poeta si rammarica che Pompeo e Tito abbiano conquistato la Giudea, poiché ora che Roma è in disgrazia, «il popolo vinto opprime i vincitori».

L’esclusivismo e il fanatismo dei giudei era per un romano la più evidente contraddizione del diritto, della fratellanza, della giustizia e della civiltà. Il carattere scontroso e la piccolezza di vedute dell’ebreo simboleggia per Rutilio la sovversione della fratellanza tra cives.

Che la contrapposizione tra romanità ed ebraismo sia ancora suggestiva e attuale non solo in ambito storico, lo testimonia anche Marguerite Yourcenar quando fa pronunciare al suo Hadrien giudizi lapidari sulle superstizioni giudaiche:

«In teoria, quella giudaica ha un posto tra le altre religioni dell’impero; ma in realtà, da secoli Israele si rifiuta di essere un popolo tra gli altri, d’avere un dio tra gli dèi. I Daci più selvaggi non ignorano che il loro Zalmosis si chiama Iuppiter a Roma; il Baal punico del monte Cassio s’è identificato facilmente col Padre che tiene la Vittoria in mano e da cui è nata la Saggezza; gli Egizi, pur tanto vani dei loro dèi dieci volte secolari, consentono di identificare in Osiris un Bacco dotato di attributi funerei; l’aspro Mitra sa di essere fratello di Apollo. Non v’è un altro popolo all’infuori di Israele, così arrogante da pretendere di contenere la verità intera nei limiti angusti d’una sola concezioni divina, insultando così la molteplicità del dio che tutto contiene; non v’è altro dio che abbia ispirato ai suoi fedeli tanto disprezzo e odio per coloro che pregano ad are diverse».

Questo per quanto riguarda l’Impero.

Sul versante ebraico, il Talmud non è avaro di anatemi contro «l’empio regno degli edomiti che governa il mondo intero». Edom (“Rosso”) è uno dei nomi della nazione discesa da Esaù. Con tale appellativo vengono designati tutti i “residui di Amalech”: oltre all’Impero Romano anche quello Bizantino, e talvolta persino la cristianità in generale.

Come scrisse il rabbino medievale David Kimchi, Roma è il regno dell’orgoglio, la sede di ogni corruzione:

«Ciò che i Profeti predissero sulla distruzione di Edom negli ultimi giorni lo riferivano a Roma, come spiega Isaia (34,1): “Avvicinatevi, o nazioni, ed ascoltate… Quando Roma sarà distrutta, Israele sarà redenta”. Quando Roma sarà distrutta, la salvezza e la libertà verranno al Popolo Eletto di Dio».

Roma Babilonia resta quindi eterna croce & delizia (senza offesa) di Israele: secondo Rabbi Bechai (Kad Hakkemach), «l’ultimo Salvatore subitamente apparirà ai nostri giorni; egli uscirà dalla metropoli di Roma, e sarà il suo distruttore».

Pensiamo solo alla recentissima polemica della “rabbina” Tali Adler che, durante i disordini negli Stati Uniti seguiti all’uccisione di un afro-americano da parte della polizia, ha avuto il coraggio di denunciare quella parte della liturgia talmudica in cui le maledizioni contro gli edomiti sono parte stessa del rituale, lanciando anche indirettamente una frecciata all’intellighenzia ebraica perennemente assetata di distruzione contro “Roma”:

 

«Discutiamo per un istante delle parti della nostra liturgia che ci mettono in imbarazzo. Sapete di cosa parlo: l’ultima strofa del Ma’oz Tzur, dove essenzialmente noi ebrei invochiamo il crollo della civiltà occidentale [“Oh Signore, snuda il Tuo santo braccio, ti sia caro il sangue dei miei martiri, | Giudica ogni malvagia nazione colpevole. | La liberazione ha tardato troppo a lungo; e i giorni della tribolazione sono infiniti, | Ricaccia il nemico nell’ombra dell’idolatria, ordina ai sette pastori di affrettare la mia salvezza!”]. La fine del seder in cui chiediamo a Dio di riversare la sua ira sulle nazioni che non lo riconoscono, immaginando una violenza indicibile contro chi ci tiene in cattività.
Interpretiamo tali passaggi in diversi modi: ignorandoli oppure sostituendo la parola “ira” con “amore”. E lo facciamo perché, oggi, per gli ebrei bianchi che vivono in America, quei sentimenti sono imbarazzanti. Siamo un popolo violento e pieno di rabbia? Come possiamo eventualmente chiedere la violenza di Dio contro le persone tra cui viviamo, quelle che ci trattano, per la maggior parte, come fratelli?
Vorrei suggerire di rivedere quei passaggi, perché sono stati scritti quando i nostri antenati vivevano in tale orribile oppressione, quando le loro esistenze non valevano nulla e sapevano che il loro sangue per chi li circondava valevano meno di quello degli animali. E così i nostri antenati chiedevano giustizia, giustizia che, nella sua forma più pura, richiedeva quelle invocazioni che ora aborriamo.
Non mi auguro che Dio proibisca la violenza: spero ancora che ci possa essere giustizia in questo paese senza la irremovibile ira di Dio. Ma sto dicendo: come eredi di tutto ciò, è nostra responsabilità, oggi, ricordare. Rileggere i passaggi che ci mettono in imbarazzo e cercare di superare quella vergogna. Sapere che i nostri antenati, per così tanto tempo, hanno provato una sacra rabbia, rabbia che hanno codificato nelle nostre preghiere e nelle cerimonie più sacre. E ricordare, oggi, che mentre potremmo non sentire più visceralmente la rabbia santa degli oppressi, il minimo che i nostri testi sacri ci richiedono è che lo ricordiamo, lo riconosciamo e onoriamo quando lo vediamo. Dio ci perdoni se dovessimo dimenticare».

L’odio ebraico resiste duemila anni dopo: e i romani, dove sono? Da una parte, potremmo ricordare la fulminante battuta di Tony Soprano alle prese con un ebreo tradizionalista che non voleva pagare il pizzo.

Dall’altra, una corrente molto ampia della noosfera internettiana ha fatto sua l’eredità di Roma riproponendola attraverso i meme.

“And the Romans…where are they now?”
“You’re lookin at ’em, asshole”

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