Salento e Polonia, cinquecento anni di amicizia

 

Una felicissima scoperta il volume di Vittorio Zacchino, Salento e Polonia. Cinquecento anni di amicizia da Bona Sforza a Carol Wojtyla  (Edizioni del Grifo, Lecce, 1994), nel quale lo studioso articola l’analisi di questa straordinaria “amicizia” in sei tappe: dalla regina consorte Bona Sforza d’Aragona alle disavventure dell’umanista Giovanni Bernardino Bonifacio, dalla solidarietà salentina per la Wiosna Ludów (la “Primavera dei Popoli”) alle truppe polacche reduci da Montecassino bloccate in Salento dopo Jalta, dalle avventure del massimo studioso vaniniano Andrzej Nowicki (1919-2011) al pellegrinaggio a Otranto di Giovanni Paolo II nell’ottobre del 1980, in occasione del cinquecentenario dell’eccidio idruntino.

Sono vicende che tutti gli italiani dovrebbero conoscere e che invece sono perlopiù ignorate. Quasi nessuno infatti sa che la regina Bona Sforza (che lo Zacchino collega al Salento principalmente per il ruolo che gli umanisti di quella terra ebbero nella sua formazione culturale), data in sposa dalla madre Isabella d’Aragona a Sigismondo I, italianizzò la corte di Cracovia portando con sé una folla di artisti, medici, scienziati, artigiani (e perfino giullari). L’allora capitale polacca si avvalse dell’opera di molti protagonisti della rinascenza, tra i quali Bartolomeo Berrecci da Pontassieve, Giovanni Maria Mosca da Padova, Bernardino de Gianotis e Bernardo Zanobi da Roma, Giovanni Cini da Siena, Filippo da Fiesole, Pietro da Bari. La regina fece inoltre trapiantare in Polonia cipolle, sedani, cavolfiori, spinaci, pomodori e carciofi, ortaggi che ancora oggi vengono indicati col termine di włoszczyzna (“italianate”, roba italiana”).

Al di là dell’aneddotica, è sconcertante il fatto che alcune guide turistiche milanesi non sappiano spiegare ai polacchi in visita al Castello Sforzesco perché il Biscione compaia anche nella loro araldica. Sarebbe utile almeno ricordare il nome della sovrana della quale l’Aretino scrisse: «Voi Donna non avevate bisogno di cotesto Regno, ma che cotesto Regno aveva penuria di voi Donna».

Un’altra personalità gigantesca del periodo umanistico fu Giovanni Bernardino Bonifacio (1517-1597), duca di Oria che dissipò la sua fortuna in imprese editoriali dall’incerta sorte, e dopo aver girovagato l’Europa protestante in preda al furor peregrinandi, dal ritorno da un viaggio in Inghilterra naufragò nel porto di Danzica perdendo ogni suo avere. Per riuscire a sopravvivere si accordò con i notabili del luogo e donò i “rimasugli” (1318 volumi!) della sua immensa biblioteca itinerante al Senato della città, in cambio di un alloggio nel collegio cittadino e una pensione settimanale di un fiorino ungherese. L’unica “espressa condizione” presente nel contratto di donazione è che tali volumi non finissero mai «nelle mani e nel potere dei “diabolici”, che si fecero altrimenti intitolare falsamente gesuiti».

Passando al Risorgimento, le affinità elettive tra i due popoli hanno lasciato tracce riscontrabili a qualsiasi livello – basti solo pensare ai due inni nazionali: l’uno, quello di Mameli, in cui l’Aquila d’Austria in combutta col cosacco beve il sangue polacco assieme a quello italiano; l’altro, quello polacco, che celebra le gesta di quel generale Dąbrowski che si guadagnò il grado durante la Battaglia di Novi del 1797 agli ordini di Napoleone («Marsz, marsz, Dąbrowski, | Z ziemi włoskiej do Polski» [“Marcia, marcia Dąbrowski | dalla terra italiana alla Polonia”]).

Il capitolo dedicato alla “primavera polacca” è anch’esso ricco di curiosità sui rapporti internazionali tenuti dai salentini nel XIX secolo (incredibilmente più interessanti di quelli dei nostri giorni): nel 1863 il patriottico “Cittadino Leccese”, foglio nato anche con lo scopo di far sì che i concittadini di Galileo solidarizzassero con quelli di Copernico, organizzò una lotteria a sostegno della ribellione anti-russa, raccogliendo quasi quattromila lire a favore dei “poloni”. Tra i tanti gesti di solidarietà, si ricorda anche quello dello scrittore Beniamino Rossi che destinò i proventi della sua novella Emira d’Otranto ai rivoltosi di Gennaio.

Un testo introvabile citato da Zacchino è Polska korespondencia J. Garibaldiego, il carteggio polacco di Garibaldi curato da Adam Lewak nel 1932, che testimonia i contatti tra il Generale e il rivoluzionario Ludwik Mierosławski, rappresentante dei polacchi in Italia, così come la sua ammirazione per i volontari accorsi nelle campagne militari di Sicilia e Napoli.

Il quarto capitolo si sofferma invece a lungo sui “senza patria” del generale Władysław Anders, che dopo aver combattuto a Montecassino dovettero assistere inermi alla sovietizzazione della loro patria col consenso degli Alleati. In Salento i soldati polacchi formarono delle comunità che, tra alti e bassi, lasciarono un ricordo indelebile nella popolazione, come testimoniano le numerose targhe votive presenti in diverse chiese del leccese.

Zacchino riporta il contributo dello scrittore Giuseppe Minnone, che ricorda la presenza delle truppe polacche nell’entroterra:

«Quando si spostavano per le esercitazioni militari, inquadrati, cantavano una canzone che ricordava il tragico avvenimento [il massacro di Montecassino]: era commovente, anche se non si conosceva la lingua polacca. La parola “Montecassino” era però chiara. Al loro passaggio uscivano per strada i bambini, abituati a seguire e a precedere le bande musicali che facevano il giro del paese il giorno della festa patronale; gli adulti spiavano dalle imposte e provavano un brivido a quel toccante motivo. Molti dei Polacchi si commuovevano nel raccontarmi a gesti, suoni onomatopeici e qualche parola italiana la terribile esperienza» .

Quella misteriosa canzone era Czerwone maki na Monte Cassino (“Papaveri rossi sul Monte Cassino”):

 

Czerwone maki na Monte Cassino
Zamiast rosy piły polską krew.
Po tych makach szedł żołnierz i ginął,
Lecz od śmierci silniejszy był gniew

I papaveri rossi a Montecassino
Hanno bevuto il sangue polacco al posto della rugiada.
Un soldato passava tra quei papaveri e moriva,
Ma la rabbia era più forte della morte.

In Polonia fu vietato cantarla almeno fino alla morte di Stalin, per minimizzare il contributo polacco alle forze Alleate durante la Seconda guerra mondiale. A tal proposito, sarebbe giusto ricordare alcune imbarazzanti testimonianze di certi gazzettieri, che sulla stampa locale invitavano gli ospiti a tornare alla loro patria generosamente redenta dai russi (ma nel bene o nel male il Salento non è l’Emilia, e laggiù non ci fu nessun “treno della vergogna”).

Infine, gli ultimi due capitoli sono dedicati alla storia più recente: “Il Salento vaniniano di Andrzej Nowicki” ci presenta una straordinaria figura di studioso polacco ampiamente trascurata. La filosofia di Nowicki è un’interpretazione della storia come «complesso ed intricato intreccio di incontri tra gli esseri umani attraverso la mediazione oggettiva delle loro opere umane». Uno stile di pensiero intrinsecamente italico, anche se più aderente alla lezione vaniniana (e bruniana) che a quella vichiana. La descrizione dei suoi frequenti soggiorni in Salento, anche nei periodi più complessi della storia polacca (come negli anni di Solidarność, attraverso i quali secondo il filosofo «la classe operaia polacca si è trasformata da oggetto in soggetto della storia»), sono tra le pagine più suggestive del volume: «Il 27 dicembre 1966 mi trovai di nuovo a Taurisano e visitando il giardino che una volta era appartenuto ai Vanini, sentii la presenza del suo Spirito. […] Mi apparve come un ragazzo di una decina di anni, che coglieva le arance e giuocava con alcune ragazze della sua età, senza presentimento alcune del suo destino» (la citazione proviene da La mia Italia. I miei incontri con gli spiriti viventi, “Presenza Taurisanese”, maggio 1993).

Nel capitolo “Il Papa polacco fra i salentini”, è ricostruita dettagliatamente la visita di Giovanni Paolo II a Otranto: Wojtyła ebbe modo di celebrare l’eroica Chiesa albanese al di là del mare, e la comunità parrocchiale di Lequile offrì una somma di denaro destinata agli “operai polacchi” (due gesti molto significativi in quel determinato frangente storico). Il Pontefice inoltre definì il Salento “antica terra protesa come una testa di ponte verso il Levante” e lo elesse a terreno d’incontro fra i figli d’Abramo.

Il libro si conclude con una esaustiva appendice e un vasto repertorio fotografico. Tuttavia la storia dell’amicizia polacco-salentina, come oggi testimoniano, ad esempio, i vari gemellaggi tra provincie e i ricorrenti ritrovi degli “alessanesi”, sembra promettere altri cinquecento anni di solidarietà e fratellanza.

Mausoleo di Bona Sforza nella Basilica di San Nicola (Bari).
Le due statue rappresentano l’Italia e la Polonia.

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