Per un giorno (7 giugno 2019) ci siamo ricordati di essere ancora cattolici, quando Papa Bergoglio ha dichiarato che non gli piace viaggiare:
«Vi farò una confidenza: a me non piace viaggiare. Mi è successo quello che succede ai bambini capricciosi: non ti piace la zuppa? Due piatti! È vero che nei viaggi trovi la gente, la gente buona, ma a me non piace viaggiare naturalmente».
Finalmente una cosa condivisibile: anche a noi non piace viaggiare. Del resto l’affermazione “Mi piace viaggiare” è una tipica manifestazione di puttanesimo, sia dal punto di vista maschile che femminile (ma più femminile).
Il motivo per cui a noi non piace viaggiare dipende soprattutto dal fatto che il mondo ci appare immerso nel grigiore, una sterminata sequela di pattern priva di significato. Certo, qualcuno potrebbe equivocare questo realismo con la pura e semplice depressione, e forse non avrebbe tutti i torti. Il problema è che, per un maschio solo, il viaggiare rappresenta perlopiù un enorme spreco di energie e risorse (fisiche, psicologiche, economiche). Ha senso, in alcuni casi, farlo con un amico (visto che le donne ci schifano): ma con un amico, se è un vero amico, ci si sta bene ovunque, davanti al Taj Mahal come fuori da uno stadio o un pub. Può sembrare retorica spicciola, ma è l’unica verità: le esperienze solitarie di fronte a templi profanati o montagnole perforate non sono che strategie psicologie di addattamento (coping) per non dover pensare alla propria insopportabile isolamento.
Posso concedere, forse, un po’ alla Grecia, da ubriaco e sfatto a cercare un senso tra cani randagi e Monastiraki. Come sosteneva Furio Jesi, “ci sarebbe da scrivere un saggio sulla mitologizzazione delle memorie e dei soggiorni in Grecia operata dai più severi protagonisti della filologia storica”. Conosceva i suoi polli, il caro vecchio Furio (Ulrich von Wilamowitz-Moellendorff in primis). Anche Giorgio Poi, uno dei più severi protagonisti della musica leggera contemporanea, ha posto la questione fondamentalmente negli stessi termini (Non mi piace viaggiare, 2019)
La luna di miele nel cielo di Creta
Ti piace la Grecia e l’odore che ha
Un misto di vimini e di moussakà
Di pesci e pomeriggi al bar
Ma ti ci vedi? Io no
Io più ci penso, meno lo so
Scusa non mi piace viaggiare…
Viaggiare fa schifo, diciamola tutta. Quando sono stato in Polonia, per esempio, ogni tassista mi voleva portare a puttane, e invece io ho passato il tempo a visitare chiese, a parlare coi preti in latino e a chiedere indicazioni nel mio polacco stentato alle bionde per strada. Non ci riesco a fare i puttan tour, finirebbero tutti come ne Il ragazzo di campagna (ricordate, “La vita è una grande cosa bella“… Pavese scansate).
Quindi almeno per una volta non posso che trovarmi d’accordo con questo Pontefice. Penso però, con un po’ di malinconia, anche a quante cose la Chiesa avrebbe ancora da dire sui Novissimi di fronte alla miseria della spiritualità contemporanea: manco a farlo apposta, l’altro giorno mi sono imbattuto in un video su Youtube (Why You Shouldn’t Fear Death) che addirittura vorrebbe trovare il senso della vita proprio nel viaggiare (“vedere le piramidi”…).
La Morte fa parte della Vita, bisogna godere solo del presente, la paura di morire è irrazionale eccetera: ma va’ a quel paese (è proprio il caso di dirlo)! Non saranno due mattoni accatastati a farmi sentire appagato e soddisfatto di questa esistenza: io voglio rimanere una contraddizione eterna, nella mia città, nel mio quartiere, nella mia casa, nella mia stanza.
Per questo dei miei viaggi ricordo solo le scarpe che ho indossato, quelle ciocie gloriose che, dopo un acquazzone più forte degli altri, hanno infine ceduto. Acquistate in un mercato rionale, di fattura poco pregevole, erano tuttavia nel corso degli anni diventate comode come pantofole: una strana parola, questa, che condivide l’etimo con la “scarpa” vera e propria in russo, туфля [tuflja]. Sapete, pantuffel, tuffele, tuffel ecc… (non accenno nemmeno al fatto che i russi usano anche una parola turca gergale, башмак [başmak], perché si aprirebbe un altro universo).
“Scarpa” del resto è un termine aggressivo, gotego (skarpaz, sharp) qualcosa che “scolpisce” perché ha la punta, mentre la pantofola si adatta naturalmente alla patta, il piede, anche dal punto di vista etimologico. Con queste scarpe/pantofole avevo infatti raggiunto un equilibrio tra la mia natura di pantofolaio e questa fottutissima necessità di viaggiare che sembra contraddistinguere buona parte del genere umano (un altro pattern).
L’ansia di “penetrare” il mondo con la punta delle scarpe aveva dato tregua all’accidia che mi contraddistingue: è stato quindi quasi utopistico poter girare per Atene o Varsavia in “pantofole” (in questo tutto sommato consiste la ewige Frieden di Kant). Perciò ho voluto scattar loro una foto prima di gettarle via (la luminosità automatica rende ancor più inquietante l’immagine).
Come cantava il Poeta (così rimediamo alla citazione iniziale di Giorgio Poi, che avrà fatto sicuramente storcere il naso ai lettori più raffinati), “Il vero è nella memoria | e nella fantasia”. Ecco cosa rimane dei tanti o pochi viaggi (comunque troppi): delle scarpe sfondate. Non voglio più vedere nulla, di nuovo o di antico. Proprio così: a me e al Papa non piace viaggiare.