Donatella Di Cesare è una filosofa e giornalista di uno certo spessore accademico che recentemente ha ottenuto una discreta visibilità grazie alla sua opposizione all’attuale governo: per un osservatore imparziale tuttavia il suo profilo Twitter rappresenta quello che gli americani definirebbero un cringe-fest, tra puerili appelli alla rivolta (che di solito cominciano con un “Car* tutt*”), sfuriate da barricadera in pensione e “illuminatissime” analisi come quella di cui sopra (l’inno nazionale considerato un’espressione del “patriottismo salviniano”, lol).
Su tutto incombe il convitato di pietra del sionismo, di cui la Di Cesare è una devota sostenitrice: se tuttavia negli ultimi tempi, probabilmente proprio allo scopo di accreditare la sua immagine di intellettuale “resistente”, la filosofa ha preferito opportunisticamente glissare sulla questione, prima o dopo i nodi verranno inevitabilmente il pettine.
Ecco perché, per il bene della professoressa (e anche per quello della comunità ebraica italiana), sarebbe auspicabile che il profilo le venisse chiuso, o che fosse lei stessa, in uno sprazzo di lucidità, a interrompere questa imbarazzante militanza social. Perché finché certe diatribe restano confinate nelle pagine di libri e giornali (che pochi sfoglieranno), il “gioco” può anche durare un’intera vita: nessuno chiederà mai a un pensatore filo-sionista di rendere conto della chutzpah, del doppiopesisimo sfacciato con cui giustifica o addirittura esalta qualsiasi scelta fatta da Israele, indipendentemente dalle proprie posizioni morali o culturali o politiche (quasi come se l’appartenenza etnica valesse sopra ogni cosa…).
Non credo esista una definizione non offensiva o neutrale per identificare tale atteggiamento (considerando anche il tipo di suscettibilità con cui abbiamo a che fare): già tartufismo suona male; che dire allora di “finto-tontismo”, suona più bonario? In ogni caso, proprio tale “finto-tontismo” negli Stati Uniti ha contribuito a creare nel fronte progressista un dissidio insanabile tra gli ebrei e le altre minoranze, favorendo la diffusione dell’antisemitismo a destra come a sinistra, tra gli afroamericani come tra i latinos. Questa frattura, che oltre alla questione israeliana ha anche motivazioni di ordine sociale, politico e culturale, ha in seguito “costretto” l’intellighenzia ebraica a moltiplicare le proprie manifestazioni di “apertura mentale” e “liberalità” (intesa in senso yankee), ponendosi sempre a fianco dell’ultima “avanguardia rivoluzionaria” (anche in campo accademico: vedi la proliferazione degli studies ecc.) e generando ulteriori paradossi e imbarazzi, che ci hanno portato a una situazione -quella attuale- in cui l’intellettuale kosher di punta sostiene al contempo l’eliminazione di tutti i confini ma la chiusura ermetica di quelli israeliani (nonché l’etnocentrismo su cui si basa lo stato ebraico), esalta l’immigrazione incontrollata ma biasima i governi dei Paesi che dovrebbero metterla in pratica di essere incapaci di difendere le “loro” comunità ebraiche dalla rampante giudeofobia islamica, biasima il “privilegio bianco” in qualsiasi campo ma quando viene accusato di essere egli stesso “bianco” si rifugia nella propria identità etnica (fallendo per giunta nel compito che si è dato di “mediatore tra minoranze”, come quando vorrebbe far convivere in uno stesso quartiere i gay pride mensili con le celebrazioni collettive per le varie festività islamiche).
Dico tutto questo perché temo che Donatella Di Cesare stia cercando di “importare” tale impostazione in Italia: non so se sia per moda o conformismo, o magari per una personale disposizione caratteriale, ad ogni modo questa pericolosa e surreale convergenza tra chutzpah, post-modernismo, déconstruction e “finto-tontismo” la si intravvede oltre che negli innumerevoli articoli (prima della “resistenza” ricordiamo qualche dicesarata sulla questione catalana) anche in alcuni suoi saggi. Prendiamo ad esempio uno dei meno riusciti (perché alcuni sono davvero apprezzabili, come Grammatica dei tempi messianici), il libello anti-negazionista Se Auschwitz è nulla (Il Melangolo, Genova, 2012).
In primis la Di Cesare non argomenta in alcun modo la sua opposizione al negazionismo contro la Shoah, ma si limita semplicemente a dirne di cotte e di crude sui suoi rappresentanti più “famosi” (manco fossero Salvini!), giungendo addirittura a contestare alla studiosa Valentina Pisanty (autore del celebre L’irritante questione delle camere a gas) di aver “offerto legittimità” ai negazionisti nella misura in cui ha cercato di smentirli con argomentazioni razionali, accettando così implicitamente il “paradigma” che tende a “far passare l’idea che la storia sia una scienza” (p. 74).
Dunque il primo punto è che “scienza” è in sé un concetto negazionista, cioè antisemita e, perché no, razzista, patriarcale, eurocentrico, omofobo e fascista. Ovviamente si scherza, ma fino a un certo punto, perché tale lettura rappresenta già in nuce la deriva a cui è giunta la sinistra liberal d’oltreoceano, che rifiuta qualsiasi dibattito o confronto considerando la verità stessa come una “invenzione del suprematismo bianco”.
Il secondo punto riguarda la sfacciataggine nell’inserire una apologia del comunismo sovietico in un testo che invoca leggi speciali contro il revisionismo; sostiene infatti la Donatella che “non si può ridurre il comunismo allo stalinismo [perché] la corruzione di un progetto non è il progetto” (p. 144) e che nei gulag, a differenza che nei lager nazisti, “la morte era la conseguenza estrema, […] un accidente imprevisto” (p. 155). Sono parole che si commentano da sole, ma che comunque danno l’idea del doppiopesismo (fase suprema del finto-tontismo?) con cui si ha a che fare. (Notiamo anche che, sempre in un testo contro il revisionismo, la Di Cesare, discutendo della reificazione del popolo ebraico, a pagina 116 chiama in causa il “grasso per sapone” e la “pelle umana per paralumi” prodotti con i resti delle vittime di Auschwitz, due leggende nere risalenti alla propaganda di guerra e confutate da tempo).
Il terzo punto è il più controverso e ne accenniamo solo di sfuggita, per non incappare nella scontata accusa di antisemitismo. Afferma la Di Cesare che “gli ebrei non hanno diritto di esistere se non per la sofferenza subita” e che “l’Occidente celebra il popolo disfatto, annientato e nullificato, nell’istante stesso in cui ignora quello vivo” (p. 100). Sono accuse che in questi anni altri pensatori ebrei hanno in effetti formulato (vedi Contro il giorno della memoria di Elena Loewenthal), ma francamente non si comprende -se non con un po’ di malizia- quale sia il bersaglio dei loro strali: nel caso della Di Cesare, addirittura pare che tra le righe costei voglia mettere sotto accusa un fantomatico “Occidente” per l’evidente (ma innominabile) fallimento del sionismo: «È il ruolo della vittima che impedisce di realizzare il progetto politico» (p. 101).
Come scrive Slavoj Žižek,
«Il popolo ebraico si è affermato nel XX secolo come una sorta di Ur-Vater, di patriarca di gruppo pre-edipico. Proprio come nel mito freudiano dell’assassinio del padre primordiale, gli ebrei sono stati sterminati (l’Olocausto come crimine fondativo) per riemergere quale ente superegotico, che fa sentire colpevoli tutti gli europei» (Problemi in Paradiso, Ponte alle Grazie, 2015, p. 249).
Ora, volendo ammettere (ma il punto non è pacifico) che la rilettura olocausto-centrica del’intera vicenda umana sia una pratica messa in atto dagli europei per colpevolizzare moralmente Israele e non invece una strategia politica di quest’ultimo per impedire che la comunità internazionale, paralizzata proprio dai sensi di colpa verso il popolo ebraico, possa esprimere qualsiasi giudizio contro di esso, qui le possibilità sono due: 1) Tutto quello che fa Israele è “normale amministrazione” e dunque anche le altre nazioni possono sigillare le frontiere, costruire muri, sterminare i popoli confinanti e istituire un meccanismo di cittadinanza basato sull’etnia; 2) Israele non è una nazione come le altre perché nasce da un olocausto e dunque per impedire la ripetizione dello stesso gli è consentito di fare ciò che vuole.
La prima soluzione, si sa, è politicamente improponibile, perché basta cambiare il contesto e la “lotta per la sopravvivenza” diventa puro e semplice nazismo. La seconda invece è quella che in effetti vige attualmente, anche se è inevitabile che come conseguenza comporti il “brutto gioco” (come lo definisce la Di Cesare in uno dei tweet citati all’inizio) della “nazificazione di Israele” e della “ebraizzazione dei palestinesi”. Insomma, il gioco è “bello” (si fa per dire…) solo quando la “Anna Frank dei nostri tempi” muore affogata davanti a Lampedusa e non con un proiettile in testa a Gaza: ma è chiaro che sulla lunga distanza tutto ciò non è sostenibile, sia politicamente che moralmente (tra l’altro la shoahizzazione del fenomeno migratorio ha creato enormi tensioni sociali in Francia e Germania che sarebbe meglio evitare in un Paese altrettanto instabile come l’Italia).
Concludiamo qui per non dare adito, come dicevamo, ad accuse di antisemitismo. È difficile però non intravvedere anche in quest’ultimo punto ancora una volta il doppiopesismo all’opera: la Memoria come ente superegotico sarebbe un “ostacolo” per Israele ma un “obbligo” per tutte le altre nazioni, che altrimenti porrebbero le basi per una “nuova Shoah” mettendo in atto gli stessi comportamenti (come il controllo dei confini o la guerra preventiva) del cosiddetto “popolo eletto”, il quale invece è costretto a porre in atto tali comportamenti proprio per evitare una “nuova Shoah”. Oltre che dal punto di vista politico culturale e morale, questa roba è improponibile anche a livello della mera logica (anch’essa probabilmente “fascista” ed “eurocentrica”?).