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Sessantotto: la riforma protestante del materialismo dialettico

Nel luglio del 1968 Francesco Alberoni divenne direttore della prima facoltà italiana di sociologia in Italia all’Università di Trento, un ateneo che proprio in quell’anno  si contraddistingue per un altro ben più fatidico primato, quale culla del “movimento” che avrebbe poi dilagato in tutta la penisola. Il sociologo, nel rievocare quella esperienza che lo vide animatore di una concezione “critica” dell’insegnamento accademico, insisterà in più occasioni sulle possibilità di controllare e gestire le spinte rivoluzionarie in un progetto più ampio e articolato:

«Il 1969 a Trento ha significato un’altra esperienza e un’altra decisione: quella di gestire il potere rivoluzionario in modo esemplare, in modo tale da costituire una utopia operante: una sorgente pratica di valori» (A. Agosti, L. Passerinie, N. Tranfaglia, La Cultura e i luoghi del ’68, Franco Angeli, Milano, 1991, p. 184).

Per certi versi la lettura di Alberoni non è che una traduzione di quella di Émile Durkheim, il padre della disciplina, che identificò lo statu nascenti da cui nascono i “movimenti collettivi” nello stesso sentimento dell’adolescente in conflitto con la figura paterna. A livello collettivo, tale “stato nascente” si scatena con la mancata identificazione dei gruppi sociali negli “oggetti totali” (le istituzioni): da ciò scaturiscono forze distruttive che investono la società e ne indeboliscono le fondamenta.

Nel volume che fonda la sociologia come scienza positiva, Le regole del metodo sociologico (1893; tr. it. Sociologia e filosofia, cur. F. A. Namer, Comunità, Milano, 1969², pp. 216-217), Durkheim dedica alcune importantissime pagine alla dinamica dei movimenti collettivi, una particolare espressione di formazione sociale attraverso la quale le coscienze individuali, agendo una sull’altra, consentono l’emersione di “una vita psichica di un genere nuovo”.

L’intensità dei sentimenti che suscita l’appartenenza a un gruppo conferisce all’individuo “l’impressione di essere dominato da forze che non riconosce come sue”. Tali forze sono talmente potenti da avere la necessità di “espandersi per espandersi, per gioco, senza un fine, in forma qui di violenze stupidamente distruttrici e là di follie eroiche”.

A parere di Durkheim, è con tale “effervescenza” che si costituiscono gli ideali “sui quali riposano le civiltà, una verità sociologica che conferma la natura di “animale sociale” dell’essere umano: «Se l’uomo concepisce gli ideali, […] ciò accade dunque perché egli è un essere sociale. La società lo spinge o l’obbliga a innalzarsi in tal modo al di sopra di se stesso, e gli fornisce anche i mezzi per farlo».

Tuttavia, la “vita superiore” che sorge dai movimenti collettivi non ha durata infinita: giunge il momento in cui l’identificazione tra il reale e l’ideale si spezza, causando così nella coscienza di singolo un ripiegamento, se non un ritorno diretto alle “preoccupazioni egoistiche e volgari”.

Per sopperire all’inevitabile sfiorire della forza propulsiva dell’ideale, ecco che il “movimento” si perpetua in cerimonie, rituali e feste pubbliche, “rinascita parziale e indebolita dall’effervescenza delle epoche creatrici”. Anche espedienti di tal fatta hanno però un’azione limitata nel tempo: è solo nell’immediato che ideale e reale giungono quasi a compenetrarsi perfettamente, per tornare un attimo dopo all’inevitabile differenziazione.

È questa, ridotto ai minimi termini, la “utopia operante” a cui si riferisce Alberoni, il processo di canalizzazione delle energie sovversive in una “sorgente pratica di valori”. Tornando per un momento ai nostri giorni, è noto che il professore, abbandonati gli entusiasmi rivoluzionari, in seguito si sia perlopiù occupato di tematiche di una banalità sconvolgente, come I rischi dell’amore, La gelosia che fa ammalare oppure Il baciamano che non passa di moda. Col senno di poi, sembra lecito interpretare la sua amarezza per la violenza politica scaturita da quella stagione (anch’essa attestata in diversi interventi) come un rammarico per non esser riuscito a traghettare la generazione del 1968 direttamente agli ’80, che dalla sua prospettiva furono realmente Gli anni formidabili, quelli del “riflusso”, del “gioco”, del “tempo libero” o, per usare una formula dello stesso Alberoni, del «gusto della libertà contro le tradizioni oppressive».

Per avere una panoramica più estesa su certi “accidenti” della storia, nonché farsi un’idea sul clima di quegli anni (sempre e comunque Formidabili) si può leggere con profitto Vietato obbedire (BUR, 2005) del giornalista Concetto Vecchio. L’innovazione dell’Università di Trento è prima di tutto “spettacolare”: studenti coi jeans, studentesse che fumano, un giovane professore (Alberoni, ça va sans dire) che sgomma per la città in spider… Eppure non è tutto oro quel che luccica: dietro il giovanilismo ostentato c’era l’appoggio di potentati economici (Eni, Credito Italiano e Olivetti) e un probabile nullaosta anche da entità d’oltreoceano, se pensiamo che l’unica cattedra di sociologia esistente in tutta Italia prima di Trento era stata creata a Firenze per volontà degli Alleati stessi.

Non è forse un caso che a Genova un geometra dell’Italsider suggerisse a Renato Curcio di iscriversi «in quella università di tipo americano che hanno aperto a Trento». Il mito di Berkley, prima del brigatismo, era vivissimo nei movimentisti. Tanto che Concetto Vecchio non ha nessun dubbio nell’affermare che «il movimento studentesco di Trento è stato la culla del femminismo italiano» (p. 155). Nonostante Trento fosse perennemente occupata e la violenza dilagasse per la città, gli studenti stavano esplorando i propri sentimenti: se fosse stato possibile contenere gli scontri, il vandalismo e –soprattutto– le bombe (in città nel 1969 si registrò il numero più alto di ordigni piazzati in tutta Italia), allora Alberoni avrebbe davvero realizzato “i mitici anni ’80” già nel 1970.

Sappiamo che le cose sono andate in maniera diversa: di conseguenza, pur ipotizzando che tale progetto di ingegneria sociale fosse stato realizzato in buonafede, non si comprende quali furono le caratteristiche che resero questa “lunga marcia” generatrice di progresso invece che di decadenza.
Potremmo al contrario affermare che il disastro attuale della nostra società, che comprende il giovanilismo esasperato (frutto dell’idea che l’anagrafe istituisca una classe a sociale a parte), la militanza grottesca per i “nuovi diritti” (nata dal cortocircuito tra il privato e il politico e dal convincimento che ogni minoranza sia di per sé rivoluzionaria) e, in generale, lo sballo cretino e irresponsabile che tuttavia si vorrebbe “impegnato” e “critico” (i centri sociali, l’antagonismo ecc…), sia una prevedibile conseguenza dell’aver consentito lo sfascio di una generazione per obiettivi poco limpidi.

Oltre a questo, bisognerebbe affrontare un altro punto controverso, ovvero quanto la “cultura” di quegli anni abbia cospirato per creare il falso mito della contestazione spontanea. È difficile dire se la degenerazione si sia sviluppata all’interno del marxismo, come «riforma protestante del materialismo dialettico» (M. Veneziani) avvenuta con la sostituzione della classe lavoratrice con i giovani, gli studenti, gli intellettuali, le minoranze e i reietti della classe media; oppure se a organizzare il “contagio” siano state forze totalmente aliene alla mentalità italiana (“tradizionale” o “moderna” che fosse).

Se fosse possibile trovare conferma a quest’ultima ipotesi, risulterebbe quantomeno ingannevole un’altra dichiarazione di Alberoni rilasciata a Roberto Beretta nel volume dedicato ai rapporti tra cattolici e sessantotto: «Secondo Alberoni, Trento [poteva] diventare il “laboratorio” per la fusione tra le due culture di massa italiane: quella cattolica e quella marxista» (Cantavamo Dio è morto. Il ’68 dei cattolici, Piemme, Casale Monferrato, 2008, p. 30).

Una fusione non può produrre qualcosa di totalmente diverso dagli elementi iniziali, a meno che non la si intenda come annullamento delle entità esistenti in favore di un qualcosa di unico, monolitico: col senno di poi, il totalitarismo del pensiero unico è quel che si è realizzato, ed entrambe le due “culture di massa” obliterate hanno trovato il modo di denunciarlo secondo la rispettiva sensibilità, ovvero come “mercificazione universale” il marxismo e come “dittatura del relativismo” il cattolicesimo.

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