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Sì alla donna prete, basta che sia figa

Sebbene Papa Bergoglio abbia dichiarato, nella sua abituale aero-intervista, che “sull’ordinazione di donne nella Chiesa cattolica, l’ultima parola chiara è stata data da San Giovanni Paolo II, e questa rimane”, la questione in realtà è ancora aperta. Anzi, “apertissima”, sottolinea sagacemente Sandro Magister. Quindi, abbiate fede: la donna-prete, in un modo o nell’altro, salterà fuori, e sarà un altro grande dono di Petrus Romanus.

Certo, volendo persino sorvolare sugli obblighi imposti dalla tradizione (fonte dogmatica, ma oramai che importa), l’origine dell’esclusione sarebbe comunque di diritto positivo divino. Dunque le “carte” per porre immediatamente fine a ogni sceneggiata ci sarebbero, ma mica vorremmo finire in tribunale? Che poi sappiamo esser ora controllati da quella che il Bonifacio definiva la setta de’ diabolici, “che si fecero altrimenti intitolare falsamente gesuiti”.

No, meglio far buon viso a cattivo gioco. Nei confronti della “donna prete” suggeriamo di accogliere l’invito del Dalai Lama: «Deve essere molto, molto attraente e con una bella faccia». Così infatti ha parlato l’Oceano di Sapienza, con una noncuranza e una franchezza delle quali l’attuale Pontefice, sempre timoroso di scontentare i media, pare difettare: «Una Dalai Lama femmina con una brutta faccia non servirebbe a molto».

Un Lama alla fine del mondo

I cattolici dovrebbero umilmente far propria la proposta di Sua Santità Tenzin Gyatso (anche per favorire il dialogo tra le religioni): va bene la donna prete, ma che almeno sia figa. Perché alla fin fine, è solo su questo punto che si potrà raggiungere un compromesso dignitoso per tutti: da una parte si accetterà la “implementazione” (come oggi si suol dire) del ruolo delle diaconesse nella liturgia (almeno fin dove essa lo consente) e dall’altra dovrà esser garantita anche all’occhio la sua parte.

Gli anglicani del resto ci hanno già preceduto, proponendo come immagine della loro liberalità Joanna Jepson, che allo scopo di diventare una delle sacerdotesse più attraenti d’Albione si è sottoposta a una operazione per correggere un difetto alla mascella. Per grazia sovrabbondante, la reverenda Jepson è anche un’intransigente anti-abortista, ma il fatto di esser donna (donna-prete, per giunta) non l’ha comunque protetta dall’assalto mediatico.

Tale vicenda può aiutarci a elaborare le linee guida del sacerdozio femminile cattolico: l’illibatezza è chiaramente il primo requisito. Trovandoci in tempi di gesuitismo universale, sarebbe ammissibile una deroga per le candidate che si sono sottoposte a imenoplastica, oppure per quelle che sono riuscite a mantenere integra almeno la verginità anatomica.

Il secondo requisito è, appunto, l’avvenenza, la fatidica “bella presenza” che essendo richiesta a vigilesse e poliziotte, tanto più dovrebbe essere pretesa anche da una potenziale vescova. Si può discutere sui dettagli, ma credo che sul capello biondo non si possa che convenire all’unanimità, anche in base alla saggezza popolare che ricorda “Gli uomini preferiscono le bionde ma sposano le more” (il celibato ecclesiastico, almeno quello, rimane). Il tipo di biondo “ideale” potrebbe essere quello indicato da Raymond Chandler in Addio mia amata: A blonde to make a bishop kick a hole in a stained-glass window (così tutto torna). Naturalmente si possono anche prendere in considerazione le finte bionde, perché, come direbbe Papa Francesco, la Chiesa è la casa di tutti.

Per quanto riguarda invece le donne con una “brutta faccia”, che come ricorda il Santo Padre (il Dalai Lama, s’intende), “non servono a molto”, qualora venisse riscontrata un’invincibile esigenza al sacerdozio, allora sarebbe auspicabile il ricorso alla chirurgia plastica, anche senza giungere ai livelli della Jepson di cui sopra, ma adeguandosi, per fare un esempio, agli standard del reverendo Kathryn Percival.

Consentitemi, infine, qualche considerazione più filosofico-teologica: affermare che la bellezza esiste, in tempi di dittatura del relativismo, non è cosa da poco. Anche la bellezza minuta, quotidiana, transitoria, può evidentemente contribuire alla nostra salvezza: qualsiasi fisionomia ci rimanda a una perfezione ideale, archetipica, che la nostra mente costruisce talvolta a dispetto dei dati materiali. Tale misterioso “riflesso” induce a meditare sulla resurrezione della carne, quando i salvati saranno trasfigurati, ovvero accresciuti in moralità e bellezza. Perciò, almeno da questo punto di vista, il discorso è teologicamente fondato.

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