Nel 2014 in un’intervista per un inserto del “Corriere della Sera”, Slavoj Žižek espresse il desiderio di scrivere un libro su Galeazzo Ciano, figura storica da rivalutare perché «l’Albania fascista con lui visse un’età d’oro» (cfr. L. Mastrantonio, Un marxista contro i sindacati, 26 ottobre 2014).
Naturalmente dopo oltre dieci anni di questa opera non v’è traccia da nessuna parte, né il filosofo ha rilasciato altre dichiarazioni in merito. Tuttavia, l’affermazione mi è rimasta impressa nel tempo soprattutto per la curiosità riguardo alle fonti del buon Žižek, che evidentemente deve aver sfogliato qualche studio degno di nota per aver sperato almeno di abbozzare un ritratto di Ciano.
Alla fine però, conoscendo il personaggio, mi sono arreso, limitandomi a ipotizzare da parte sua una consultazione di qualche voce da Wikipedia (che comunque, nella versione inglese, offre spunti non sottovalutabili, come dimostra del resto una semplice scorsa alla pagina dedicata al Kingdom of Albania).
D’altro canto, almeno all’epoca, in ambito anglofono (quello più frequentato da Žižek, che talvolta attesta una sua conoscenza dell’italiano anche se, con tutto il resto, non pare averla manifestata in molti luoghi), esisteva uno studio degno di nota dello storico Giovanni Villari, A Failed Experiment: The Exportation of Fascism to Albania, pubblicato nel giugno 2007 “Modern Italy”, la rivista dell’ASMI (Association for the Study of Modern Italy).
L’articolo (consultabile qui), pur non concedendo nulla all’Italia fascista, anzi esprimendo il suo approccio tutt’altro che indulgente (a tratti persino impietoso) verso l’esperimento di “esportazione del fascismo” nella nazione balcanica, offre al contempo una qualche nozione inedita su un tema piuttosto trascurato dagli studi internazionali. Non voglio fare supposizioni, ma penso che forse nello stesso periodo in cui rilasciò l’intervista di cui sopra, Žižek si trovò per qualche motivo a leggere il testo di Villari e a trarne in qualche modo un’immagine lusinghiera dell’allora Ministro degli Affari Esteri italiano.
Prima di affrontare il tema nello specifico, mi preme proporre un paio di considerazioni -non altrettanto lusinghiere- sul pensatore sloveno: in primis, è raro che le sue opinioni politiche, una volta caduto il velo delle supercazzole (o il Lacanian Smokescreen, se preferite), non si rivelino di una pochezza sconcertante. In tal caso, la dichiarazione sul “Ciano benefattore” è sospetta per due motivi: in primis perché con questa battuta egli ha forse presunto di accattivarsi il lettore italiano, credendolo sciovinista e identitario alla maniera “balcanica”, dimostrando così una concezione meschina ed ambigua del nostro Paese.
In secondo luogo, la sparata è sospetta perché essa si accompagna a una serie di dichiarazioni decisamente imbarazzanti da parte di Žižek sulla necessità di una “Grande Albania” etnocentrica e totalitaria (il modello politico di riferimento per il filosofo a quanto pare è Singapore) per risolvere la questione balcanica. A tal proposito consiglio la “decostruzione” del volume -non tradotto in italiano- From Myth to Symptom: The Case of Kosovo, scritta col suo allievo kosovaro Agon Hamza, da parte del politologo serbo Dragan Plavšić (Did Somebody Say Ethnic Partition? A Critique of Žižek on Kosovo and the Balkans, “LeftEast”, 9 giugno 2014).
Al di là delle opinioni personali, è evidente che il Nostro non abbia a disposizione il materiale necessario al fine di scrivere di affrontare in maniera minimamente comprensibile un argomento controverso come l’Albania fascista (d’altronde egli stesso pare consapevole dei suoi limiti, dato che subito dopo dichiara di avere “lavori più seri” da fare…).
Lo studio di Giovanni Villari resta in ogni caso un ottimo punto di partenza, anche perché è basato su documenti dell’Archivo Centrale di Stato albanese (Arkivi Qendror Shtetëror) e riesce a offrire una prospettiva “interna” all’occupazione italiana. Lo storico riconosce che, almeno durante la prima fase (aprile 1939 – ottobre 1940) il fascismo riuscì a porre ordine in una situazione caotica, regolando la vita politica, esportando modelli di gestione dello Stato e della burocrazia, investendo in infrastrutture e sviluppando una rete assistenziale nel Paese:
«L’Albania italiana [inizialmente] apparve al mondo come prova della qualità e dell’esportabilità del modello fascista, capace di produrre un prodigioso progresso organizzativo, sociale, culturale ed economico in un Paese che era rimasto ai margini dello sviluppo continentale».
Sfortunatamente il “modello” si scontrò con le sue inevitabili contraddizioni interne, delle quali la più evidente è la competizione tra nazionalismi: se nella retorica dei discorsi e delle dichiarazioni l’Albania non veniva ridotta a “colonia” (definizione riservata alle conquiste africane) ma a “Comunità Imperiale di Roma”, nei documenti ufficiali non vi era alcun scrupolo a indicarla come “provincia albanese”. Questa “competizione” si evidenzia anche negli episodi più insignificanti, come l’istituzione dell’Opera Nazionale Balilla (ONB) secondo le linee italiane e non sulle basi dei “Figli dell’Aquila”, l’organizzazione giovanile “autoctona”.
Nonostante le “riforme” di Ciano, che -bisogna riconoscerlo- erano soprattutto basate su un’elargizione senza limiti di denaro, anche l’élite filofascista (formata perlopiù dalla classe preesistente di proprietari terrieri nel Sud del Paese e dai capi clan del Nord), si stancò precocemente della prospettiva di un “regno” sottomesso a un unico monarca, e di fronte all’apertura del fronte greco (che gettò un’ombra sulla capacità di combattimento fascista) non si accontentò nemmeno dell’instaurazione della “Grande Albania”, che nel 1943 era già diventato un protettorato nazista (paradossalmente nell’unico Paese occupato prima della guerra e senza l’aiuto tedesco).
Alla fine gli albanesi, divisi fra tribù e fazioni in perenne faida (non solo a livello politico), trovarono un’inedita unità nell’avversione verso gli italiani, in specie valutando le sorti del conflitto: da una parte una vittoria dell’Asse avrebbe potuto privilegiare il dominio tedesco su quello di Roma, dall’altra il trionfo degli Alleati avrebbe consentito di presentarsi come vittime dell’occupazione nazi-fascista nelle trattative. Anche i comunisti si unirono alla “cuccagna”: come osservò il generale Alberto Pariani, che era subentrato al console Jacomoni come Luogotenente d’Albania nel marzo 1943, essi all’epoca professavano idee ultra-nazionaliste per aumentare il proprio consenso.
Mi sembrava necessario ricapitolare gli spunti più interessanti offerti dall’analisi dello storico italiano. Per tornare a Žižek, se il suo desiderio di pubblicare finalmente qualcosa di leggibile fosse sincero, mi permetterei di consigliargli (e non è detto che non legga, visto che è un assiduo cercatore del suo nome su Google) il quarto volume de L’epoca delle rivoluzioni nazionali in Europa di Michele Rallo (2002), dedicato appunto a Albania e Kosovo, dove peraltro troverebbe giudizi entusiastici sull’occupazione pari a quello da lui espresso (la tesi dello storico, apertamente filofascista, è che l’Italia è da sempre «dispensatrice di benessere per il popolo albanese»).
Se non altro il filosofo inizierebbe a capire che la cosiddetta “epoca d’oro” non fu soltanto il capolavoro di Ciano, ma soprattutto l’esito di un lunghissimo rapporto di amicizia tra i due popoli iniziato molto prima del Ventennio, sia a livello politico che culturale: l’Italia infatti, oltre a promuovere missioni archeologiche, edificò scuole, ospedali, orfanotrofi, acquedotti, strade (il centro di Tirana fu rifatto a nuovo dall’architetto Armando Brasini).
Dunque parlare del rapporto italo-albanese in termini di “fascismo” è un eccesso degno di chi oggi non si perita di fomentare il nazionalismo più becero solo per épater la bourgeoisie multiculturelle (come afferma Plavšić). Bisogna tuttavia concedere che ai tempi in cui l’Albania divenne «la nuova gemma della corona sabauda» l’alleanza tra i due popoli fu molto più vivace e appassionante di quella odierna, impostata ormai quasi esclusivamente su un deprimente “europeismo”.
Per capire lo spirito dell’“epoca d’oro” (che, come detto, non fu solamente fascista), si potrebbe leggere con un certo profitto Albania. Quinta sponda d’Italia (CETIM, Milano, 1939) di Pio Bondioli (1890–1958), ufficiale in Albania e Grecia durante la Prima Guerra Mondiale. Il volume è consultabile integralmente online presso il portale dell’Archivio Studi Adriatici.
Il libello, pubblicato un mese dopo l’arrivo di Ciano a Tirana (uno dei primi instant book dell’Italia moderna?), è densissimo di annotazioni storiche, letterarie ed etnografiche da fare invidia a qualsiasi monografia moderna. Chiaramente lo spirito del tempo si percepisce forte e chiaro, ma forse è questa l’unica lettura che concretamente gioverebbe alle aspirazioni immaginarie di Žižek; consigliamo in particolare le pagine 162-163, dove è riportato un discorso del Ministro Ciano alla Camera dei Fasci del 15 aprile 1939 (un mese dopo l’invasione) sul contributo italiano alla rinascita dell’Albania:
«275 chilometri di strade costruite ex novo; 1500 chilometri di strade riattate su tracciati preesistenti; 100 ponti di media e grande lunghezza e 1000 di lunghezza minore; tutti gli edifici pubblici di proprietà demaniale nelle città di Tirana, Durazzo, Scutari, Elbassan, Argirocastro, Berat e Coritza; costruzione del Porto di Durazzo; arginatura e canali di irrigazioni di numerose Provincie, italiane le Società minerarie, italiane le Società elettriche, italiane tutte le imprese che tendevano a mettere in giusto valore le risorse naturali del Paese e ad offrire ad un popolo, troppo lungamente abbandonato ad un triste destino che per le sue virtù civili e guerriere non merita, un adeguato campo di attività produttrice. E infine italiane, sempre italiane, le iniziative dirette ad elevare culturalmente e spiritualmente le masse popolari albanesi.
I capitali impiegati dall’Italia in Albania dal 1925 ad oggi ammontano alla cifra di un miliardo e 837 milioni di lire; cospicua in se stessa, ma resa ancor più imponente dal patrimonio di operosità e di fede profuso a piene mani dalla schiera benemerita di quegli Italiani che hanno fatto dell’Albania il non sempre agevole centro del loro lavoro, pionieri silenziosi e infaticabili di una pacifica impresa, ai quali oggi deve andare la espressione della nostra schietta ed ammirata riconoscenza».
Ora non resta che al filosofo sloveno accordare tutto questo con il cinema di Hitchcock, il capitalismo singaporiano e la teologia politica di san Paolo.
Basta trashonismo impenitente Tot! Alza il fondo schiena dalla tavoletta del… la scrivania!
Il fascismo e l’Europa orientale, di Jerzy Borejsza.
Un libro serio, l’unico da leggere anche se pubblicato nel 1981!
Grazie per il consiglio, non lo conoscevo, solitamente per gli argomenti che mi appassionano utilizzo solo fonti “sputtanate”
A noi viene sempre da dire GALEANO CIAZZO
Anch’io ho scritto “Galeano” per tutto il post e l’ho dovuto poi correggere…