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Solo per vederti felice disperderei i dimostranti con l’idrante

Rosario Pellecchia è un conduttore radiofonico, “noto” (non sappiamo bene a chi) con lo pseudonimo di Ross, che ha appena dedicato un pensiero molto sentito a coloro che hanno avuto l’ardire di manifestare contro il governo:

“Disperdere i dimostranti con l’idrante e non scrivere una riga sui giornali. Così capiscono cos’è davvero una dittatura. La tolleranza con gli intolleranti ottusi è un esercizio democratico inutile. Questa gente è la feccia della società italiana”.

Dato che in seguito il Nostro ha “lucchettato” il suo profilo Twitter, abbiamo provveduto, come tanti, a fare uno screenshot (anche perché sinceramente non intendiamo diventare suoi follower).

Ora, non sapevamo davvero nulla di questo tizio ma siccome la sua verve ci ha incuriositi, siamo andati a leggere il suo romanzo di debutto Solo per vederti felice (Mondadori, 2019), che racconta le vicende di un… conduttore radiofonico di nome… Ross… alle prese con l’anziana madre affetta da demenza senile.

Non siamo sicuri si tratti realmente di letteratura, a meno di non prendere sul serio la definizione allargata dello scrittore americano Stefan Merrill Block, che considera anche gli aneddoti familiari “uno spazio letterario irresistibile”, dal momento che “un nonno morto è alla stessa distanza dalla vita di una persona di quanto lo è un romanzo per un lettore”. Nulla di sbagliato, però Bisogna saperle raccontare, come faceva il titolo di una autobiografia improvvisata di Nanni Svampa (tanto per dire che non siamo così digiuni di “letteratura minore”). A titolo d’esempio del “saper raccontare”, ci sovviene quel cugino di terzo (o quarto?) grado, che da vent’anni snocciola le stesse storie con uno stile al cui confronto Maurizio Battista è…. Rosario Pellecchia, appunto. Soprannomi, superstizioni, malattie, esorcismi e crapule, tutto pantagruelizzato dalla maestria affabulatrice di questo selvaggio congiunto (ora tale anche per decreto), il cui terronismo amorale e profondo rimpiangiamo al cospetto della scialba e mediocre penna del Pellecchia (ma al suo confronto pure l’insopportabile Francesco Piccolo sembra un La Capria o un Ermanno Rea).

Insomma, Ross ci ha ingannato: credevamo di esserci imbattuti in un altro cuore di tenebra del buonismo (come quel tale, Albinati che si augurava la morte di qualche piccolo migrante per mettere in difficoltà Salvini), invece siamo al di sotto di Moccia e Fabio Volo. Non sappiamo come certi scempi possano giungere in libreria, ma la vera difficoltà è trovare qualcosa da dire sul romanzo. Senza voler inferire eccessivamente (in fondo sappiamo che anche il Pellecchia, nonostante la megalomania, non si considera davvero uno scrittore), possiamo delineare per somme righe la vicenda: Ross è un boomer superficiale e insipido che fa le solite battutine stracciapalle sul non saper cucinare, sulla grafia incomprensibile dei dottori e su “Luppolo il nano alcolista”, ma che tutto ad un tratto scopre di avere un’anima quando, costretto a lasciare Milano e separarsi temporaneamente da una morettona fighissima (“Oltre a essere bella, dice sempre cose divertenti”, carattere magistralmente approfondito sotto ogni punto di vista) per curare la mamma malata, ritorna a Napule e si riscopre non più Ross ma Rosariù.

Allo scopo di allievare il decadimento fisico e mentale della genitrice (presentato sempre in maniera ispiratissima: “A mia madre stanno finendo le batterie, e non esiste un caricatore che possa riaccenderla”), il protagonista metterà in piedi un teatrino stile Goodbye Lenin (con la teledipendenza al posto dell’Unione Sovietica) assieme a un suo ex compagno di scuola, il quale di volta in volta interpreterà cuochi e conduttori televisivi per far credere alla vecchina che siano usciti direttamente dallo schermo ad allietare le sue ultime giornate.

Saremmo anche nel secolo -o nel millennio- più cringe di sempre, ma quando è troppo è troppo. Possiamo riconoscere un minimo di vitalità nel macchiettismo partenopeo di alcune scenette à la De Crescenzo (che dopo l’esperienza ci sembra Beckett), residua àncora di salvezza artistica per un’anima così avvolta nello squallore da risultare quasi inesistente, che tuttavia si incaglia subito negli scogli del provincialismo e della subalternità riflessa, per esempio, dai ridicoli ditirambi dedicati a Milano, melting pot “vivace e frizzante” in virtù del quale tutti ma proprio tutti “coesistono pacificamente” (almeno nel quartiere Isola dove abita l’Autore). Eppure sarebbe solo la “terronanza” a investire il Pellecchia di qualche barlume di agudeza, come quando, dopo incensamenti fuori luogo alle proprie capacità di “creare una situazione rilassata e armoniosa” e “trasmettere serenità” (vedi il tweet di cui sopra), ammette, nel confronto con le radici imposto dalla tragedia familiare, di essere solo “un adolescente mai cresciuto, che vive una vita stupida e superficiale a Milano, fatta di un lavoro di nessuna utilità, di aperitivi e serate luccicanti in mezzo a gente vuota come lui”. O per dirla alla sua maniera icastica e pungente, un COGLIONEEE.

Dunque, nessun colpo di scena: il romanzo di un conduttore radiofonico che parla di un conduttore radiofonico è esattamente quel che ci si aspettava. Di contro, infinitamente più interessanti, seppur ugualmente avvolte da un’aura di mediocrità, le sparate cossighiane da cui siamo partiti: Disperdere! Idranti! Dittatura! Intolleranza! Feccia! 

Aho ma da dove è sbucato questo, dalla Curva del Male? Come si fa a non evocare Svart Jugend, di fronte alla catastrofe della cultura italiana? Per un Pellecchia tutto “uè uè” (i suoi personaggi dicono veramente “uè uè”, giuro) che invoca la più ridicola delle repressioni (l’intolleranza contro gli intolleranti, il morso della pecora del popperismo da fumetto) ricordiamo l’autore di Fuori Piove Sangue auspicare “una dittatura mesopotamica di demoni alati”.

Il Pellecchia-scrittore non ha neanche il gusto di essere se stesso, cioè una persona tutto sommato orrenda, almeno da quel che risulta dalle sue pacatissime opinioni in materia di dissenso: certo, neppure in un romanzo potrebbe raggiungere la hybris di un Patrick Bateman, a meno di non immaginare il protagonista di American Psycho come un cinquantenne che non scopa né ammazza, ma si accende le scoregge mentre usa espressioni come “paccare” e “adesso arriva Bruce Willis” (sic). E andrebbe pure bene così, perché in fondo siamo ancora un popolo discretamente civile e perciò poco bisognoso di una letteratura atta a “esorcizzare” feticci e tabù auto-imposti; o, per meglio dire, eravamo ancora un popolo, prima che il regime della peste piombasse come un avvoltoio su un corpo sociale ormai stremato e trovasse pure il tempo di esprimere i suoi maître à penser, forse gli unici che questa Italia morente si merita. Sotto la mascherina, niente.

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