Che cos’è l’empowerment, questa nuova formula entrata nel gergo mediatico italiano (ovviamente con le pronunce più disparate e fantasiose)? Si tratta, secondo Wikipedia, di “un processo sociale multidimensionale [persino nella quarta dimensione?], attraverso il quale individui e popolazioni acquisiscono una migliore comprensione e controllo sulla propria vita“.
Questo “processo di crescita, sia dell’individuo sia del gruppo, basato sull’incremento dell’autostima, dell’autoefficacia e dell’autodeterminazione“, è indissolubilmente legato all’aggettivo “femminile”: se provate, giusto per fare un esempio, a cercare su Google “empowerment femminile” troverete circa 1.640.000 risultati, peraltro correlati ad iniziative di ministeri, università, banche, associazioni internazionali, istituzioni europee eccetera.
Al contrario, cercando empowerment maschile troverete, letteralmente, zero risultati (almeno fino a quando non pubblicherò questo pezzo, che diventerà l’ennesimo “Manifesto” di un paio di generazioni). Ciò rappresenta un enorme problema, poiché pone in atto, in maniera obiettiva, una discriminazione di genere nei confronti degli uomini. E si badi bene che l’espressione non è nemmeno correlata, chessò, a qualche “questione” immaginaria, tipo le “aspettative sociali sulla mascolinità”.
Viviamo in una società, lo sapete, in cui a un uomo non è concesso di esprimersi in alcun modo, se non come antitesi negativa in un processo che pretende la cancellazione del concetto stesso di maschile. È per questo che ho provato a cercare un modo per far “sentire la nostra voce” a un mondo che ci disprezza e ci esclude: utilizzare il femminile per esprimere i nostri problemi e le nostre emozioni.
Si tratta di una trovata controversa, ma che potrebbe risultare efficace nelle giuste condizioni e rispettando alcuni criteri di base: in primo luogo l’uomo che usa il genere femminile non deve, ovviamente, avere alcun dubbio sulla propria eterosessualità. Non deve perciò gesticolare in maniera effeminata, non deve ascoltare musica che possa suscitare sospetti (non parlo solo di Village People, ma anche, tanto per dire, della musica tradizionale curda, che Saddam Hussein fece proibire nelle radio irachene perché irrispettosa nei confronti del genere maschile) e in generale deve essere maleodorante, rozzo, retrogrado, bigotto, ignorante e bianco.
Vediamo di proporre qualche caso tratto dalla vita di tutti i giorni: se un uomo affermasse al cospetto di qualsiasi uditorio di essere “stanco”, implicitamente tutti gli astanti ipotizzerebbero una forma di stanchezza fisica, o anche mentale, sempre però derivata da un qualche affaticamento riscontrabile nel reale, magari causato da qualche mansione gravosa o da una giornata particolarmente pesante di lavoro.
Al contrario, se lo stesso individuo dicesse “Sono stanca”, l’espressione evocherebbe tutt’altro universo di significati, e anche significanti. Una stanchezza “femminile” è, infatti, qualcosa di completamente diverso da una “maschile”: è un processo interiore nel quale la percezione della realtà e la mente muliebre prendono direzioni completamente divergenti, e anche a fronte di un’attività inesistente esso impone comunque una “stanchezza” che può persino manifestarsi a livello somatico.
L’esser stanca è perciò una manifestazione della psiche femminile, che gli antichi chiamavano “Satana”, nel mondo, un’irruzione quasi borgesiana o lovecraftiana di elementi alieni ed estranei alle varie situazioni concrete, le quali lasciano creano un senso costante di spaesamento e apprensione. “Sono stanca di tutto“; “Sono stanca, ma non so dire il perché“; “Sono stanca, e tu/voi non puoi/potete capire“; “Io sono stanca, lo capisci/capite?”; “Sono stanca, punto e basta, e ora non ne voglio parlare“.
Di conseguenza, l’espressione “Sono stanca” pronunciata da un uomo avrebbe lo stesso effetto di un’esplosione atomica, manifestando un incredibile potere simbolico. Un esito ancor più dirompente comporterebbe poi l’affermare “Sono arrabbiata”, al posto di “Sono arrabbiato”. Si sa che la rabbia maschile, a meno di non trovarsi di fronte a un caso patologico, intrattiene un rapporto ben preciso con gli effetti esterni da essa prodotti: ciò rappresenta il più grande vantaggio e svantaggio di essa, poiché la rende comprensibile e prevedibile, forse risolvibile, ma al contempo le toglie tutto il mistero, l’imprevedibilità e il senso di una apocalisse imminente raffigurato da una “rabbia al femminile”.
La donna arrabbiata è avatar di qualche divinità ctonia che dalle tenebre dell’inferno fa capolino per apportare una quantità indeterminabile di rancore, odio, angoscia e distruzione, suscettibile di condurre la specie, se non l’intera dimensione del vivente, all’estinzione, nel momento in cui non esiste frase, preghiera o rituale in grado di placarla.
Un discorso simile potrebbe valere per altre dicotomie come deluso/delusa, scontento/scontenta, depresso/depressa ecc…, dunque non sto a ripetermi. Più interessante, invece, affrontare le implicazioni di un aggettivo come “solo”: la solitudine maschile è oggetto di scherno e umiliazione, mentre quella femminile diventa occasione -a volte obbligata- di esercitare empatia, comprensione e solidarietà.
L’uomo perciò che avrà il coraggio di proclamare “Mi sento molto sola”, immediatamente riuscirà a porre in contraddizione i paradigmi su cui si basa la società contemporanea, peraltro senza nulla perdere della propria capacità di gestire le emozioni e raggiungere un equilibrio fisico e mentale che qualsiasi donna invidierebbe.
Bisogna dunque provare a inserirsi nel discorso pubblico con questa nuova modalità di esprimersi: è chiaro che non manca qui un minimo di polemica nei confronti del “femminile sovraesteso”, cioè l’utilizzo del genere femminile per indicare anche gli uomini, che nel 2024 l’Università di Trento ha adottato ufficialmente per il suo Regolamento generale, nel quale anche il rettore diventa “Rettrice” (indipendentemente dal sesso, che comunque nel caso in questione è maschile) e i docenti diventano docentesse (no, in realtà restano docenti, cioè le docenti, anche amichevolmente etichettabili come PAZZE).
Tuttavia, questa deve essere più una battaglia individuale che collettiva. Discutetene senza timori con i vostri amici, conoscenti o familiari (ovviamente solo se escludete al 100% che abbiano tendenze omosessuali) e invitate anch’essi a esprimersi al femminile per dare importanza alle proprie emozioni e raggiungere l’empowerment almeno a livello lessicale. Siamo tutte stanche e ora vogliamo essere ascoltate!
Non devi bere alcolici
Non devi fumare
Non devi mangiare tante calorie
Devi fare jogging
Devi andare in palestra
Devi nutrire il pensiero positivo
Evita i comportamenti tossici
Evita le persone critiche
Evita di trascurare la tua routine
I tuoi organi devono mantenersi sani per esserci utili