Non è facile pubblicare una recensione negativa all’ultimo libro di Marcello Foa, Gli stregoni della notizia (in realtà un “aggiornamento” della prima versione del 2006), considerando la sassaiola a cui è stato sottoposto dai “guardiani della voce” dopo la presentazione del suo nome per la presidenza Rai: come vuole la saggezza popolare, il nemico del mio nemico è mio amico. D’altronde le mie critiche non hanno nulla a che fare con la sua persona o professionalità, ma si limitano “semplicemente” alle idee: penso anzi che sarebbe un ottimo dirigente della tv pubblica, persino nel caso volesse trasformarla in un monolite rosso-bruno – in fondo non farebbe altro che rimpiazzare un’informazione controllata da poteri invisibili con una nella quale i “padroni” hanno almeno un volto umano.
Perché, per entrare in medias res, il “vizio di forma” che inficia l’opera di Foa risiede nell’assoluta certezza che gli unici a manipolare l’opinione pubblica siano gli “occidentali”: tale impostazione lo obbliga a una demonizzazione eccessiva della “nostra” informazione (in verità l’unica al mondo a fornire ai lettori qualche antidoto ai suoi stessi veleni), tanto da costringerlo a una chiusa ai limiti del ridicolo, quando (proprio nell’ultima pagina!) ci ricorda che «non bisogna illudersi: a usare le tecniche della guerra asimmetrica ed eserciti di troll sono tutte le potenze planetarie, non solo gli Stati Uniti» (p. 285). Ma non mi dica! E le trecento pagine sulle altre potenze planetarie, dove sono?
Questo pregiudizio porta Foa a compiere errori non solo pratici (come quando prende per buona qualsiasi bufala sulla “Turchia che sostiene-finanzia-addestra l’Isis”), ma soprattutto metodologici: quasi tutti gli esempi di frame e spin snocciolati nel volume, a ben vedere, non sono affatto tali. Vengono infatti accomunati fenomeni diversissimi tra loro quali gli “esperimenti” di Bernays, la propaganda bellica di Bush e gli studi accademici finanziati dai colossi commerciali, senza nemmeno fornire un criterio univoco di interpretazione.
Per spiegarmi meglio, sono costretto ad avanzare il sospetto che il timore di apparire “complottista” abbia spinto Foa a scrivere un giallo senza colpevole. Perché solamente ipotizzando che egli sia convinto che dietro alla manipolazione dei grandi media ci sia una “regia unica” (nella quali confluiscano politica, finanza, ingegneria sociale, occultismo, eccetera), allora l’equivoco si risolverebbe: i “committenti” dell’allarmismo sul clima diventerebbero anche i promotori del fumo tra le donne, nonché i fomentatori delle rivoluzioni colorate. Tuttavia, in un modo o nell’altro, l’Autore “dimentica” puntualmente di soffermarsi sui motivi per cui uno spin è stato creato (se non nei casi palesi): da qui ne consegue l’enorme fragilità delle sue analisi.
Per fare un esempio, trovo abbia poco senso affermare che «il frame Gabanelli ha scacciato il frame Di Pietro sul terreno su cui entrambi si erano costruiti la reputazione, quello dell’onestà» (p. 93), lasciando esclusivamente al lettore il compito di sbrogliare la matassa di una guerra psicologica durata dal 1991 al 2011: in che modo sarebbe possibile distinguere tra vittime e carnefici, se nemmeno Foa ci fornisce gli strumenti adatti per comprendere? Lo stesso discorso vale per le insinuazioni sull’allarmismo da Zika: se perlomeno l’Autore in tal caso si preoccupa di alludere a un probabile collegamento con l’impeachment di Dilma Rousseff (a dire il vero liquidandolo in poche righe), ancora una volta però scorda di “rivelarci l’assassino”, cioè i mezzi e i fini dell’operazione mediatica. Eppure, se di un fenomeno ci si rifiuta di indagare l’origine, si può davvero confidare di afferrarne la natura, senza rischiare continuamente di prendere lucciole per lanterne?
Su questo punto è necessario essere chiari: ridurre qualsiasi “sforzo comunicativo” (mettiamola così) a una forma illecita di propaganda è un atteggiamento intellettualmente poco onesto. D’altro canto, se noi utilizzassimo gli stessi criteri di Foa per giudicarlo, non potremmo fare a meno di sottolineare quante volte egli abbocchi all’amo dello spin “Isis”: un’etichetta che in questi anni è stata appiccicata a qualsiasi cosa si muovesse in Siria senza l’avallo di Assad. L’errore di dimenticarsi per tutto il libro che “non solo gli Stati Uniti” fanno propaganda lo porta talvolta a spararle grosse, come quando scrive che il senatore McCain a FoxNews avrebbe “ammesso di parlare frequentemente con i miliziani dell’Isis” (p. 224), citando come fonte un video complottista che vede in un tizio qualsiasi nientemeno che al-Baghdadi. Poi ognuno può pensarla come vuole (per esempio, credere che Assad abbia tutto il diritto di sterminare anche i “ribelli moderati”: non c’è problema!), ma non si può essere “astuti come serpenti” e “puri come colombe” a fasi alterne, altrimenti la propria credibilità va a farsi benedire: con che faccia, poi, ci si fa beffe di chi ha creduto al “mito di al-Qaeda”, confidando con altrettanto in zelo in quello dell’Isis? E’ il bue che dà del cornuto all’asino…
Non è un bello spettacolo, quindi, assistere ai contorcimenti di Foa su Assad, nel tentativo di farlo apparire come il primo bersaglio degli spin doctor di mezzo mondo: illudersi che gli “stregoni” siano tutti da una parte è puerile, soprattutto in un contesto di guerra. Passando a peccati più veniali (anche per non infiammare i toni), torniamo alla questione degli spin che non sono tali: penso alla storia dell’autista polacco che nel dicembre 2016 tentò eroicamente di sventare l’attentato di Berlino lottando con il terrorista che voleva rubargli il tir. L’accaloramento di Foa è piuttosto sorprendente: va bene, dopo pochi giorni è saltato fuori che il poveretto era stato ucciso ore prima, ma in che modo la “spettacolare fake news” (sic) avrebbe radicalmente cambiato la nostra percezione degli eventi? Quale diabolica manipolazione dell’opinione pubblica si nasconderebbe dietro una favola alla quale ci piacerebbe credere anche dopo la smentita? Ripeto: presumere costantemente la “cattiva fede” solo da una parte non è un buon servizio alla verità.
Dunque, che il libro non mi è piaciuto molto penso si sia capito (pazienza, sono cose che capitano). Certo, paragonato alle porcherie che solitamente pubblicano i giornalisti italiani è un capolavoro assoluto, ma nel campo degli studi sulla manipolazione delle masse i precedenti sono talmente illustri (penso solo al Karl Kraus de La fine del mondo a causa della magia nera) da consentirci di essere più esigenti. Va peraltro riconosciuto che la materia è tutt’altro che semplice da affrontare, in particolare per la sua essenza “opaca”. Mi sovvengono in conclusione due esempi riguardanti il Cile: quando la CIA volle propiziare il golpe di Pinochet, tra le altre cose mise in piedi El Descuartizado, cioè favorì la diffusione nei giornali “amici” di notizie riguardanti squartamenti, omicidi misteriosi e cannibalismo, in modo da creare nel Paese un clima di panico e terrore. Qualche anno dopo, nel 1987, nel deserto di Atacama vennero ritrovate dodici mummie risalenti al periodo Inca: il “Time” pubblicò la notizia con toni sensazionalistici, trasformando la scoperta archeologica in una “fossa comune” del regime contenente centinaia di corpi. Il resto del mondo fece lo stesso: gli unici giornali a riportare la storia correttamente furono… quelli controllati dalla dittatura! Questo solo per far capire che alla fin fine, per parafrasare un noto detto, sono tutti stregoni con le notizie degli altri.