Nel 1955 l’intellettuale trotzkista Isaac Deutscher stroncò Nineteen Eighty-Four di George Orwell accusandolo di mettere in atto una “mistica della crudeltà” (mysticism of cruelty), definizione che diede il titolo a uno dei suoi saggi più noti; in esso il critico non soltanto contestava all’autore inglese di aver tratto eccessiva ispirazione dal romanzo Noi del russo Evgenij Zamjatin, ma anche di aver subordinato la propria arte alle frustrazioni di un liberal deluso:
«La sua diffidenza verso le generalizzazioni storiche alla fine lo ha portato ad aggrapparsi alla più vieta e banale, alla più astratta e metafisica, alla più sterile delle generalizzazioni: tutti i complotti, i piani, le purghe, gli accordi diplomatici hanno origine da una sola ed unica fonte, una sadica fame di potere. Ciò gli ha permesso di passare dall’ordinario e ragionevole senso comune alla mistica della crudeltà che ispira 1984».
Per Deutscher, l’approccio da simple-minded anarchist costrinse Orwell a considerare qualsiasi realizzazione di un’idea politica nella storia come un tradimento della raison d’être in favore della raison d’état. Questo stato d’animo gli negò la possibilità, anche in quanto artista, di comprendere il potere da un punto di vista razionale, fissando nella sua mente (e nella sua opera) un chiodo fisso: The object of power is power (i biografi confermano l’acuto stato di paranoia nel quale lo scrittore si trascinò fino agli ultimi giorni).
D’altronde è noto che, nonostante 1984 sia stato fagocitato dalla propaganda anti-sovietica (una cosa sul quale Deutscher trova modo di ironizzare: “Poor Orwell, could he ever imagine that his own book would become so prominent an item in the programme of Hate Week?”), l’intento dell’autore fosse quello di mettere sotto accusa qualsiasi forma di potere e di ammonire gli uomini sulle derive totalitarie insite nelle democrazie occidentali (il “Ministero della Verità” è anche una caricatura del Ministry of Information creato dagli inglesi durante le due guerre mondiali).
La critica di Deutscher è chiaramente influenzata dalle sue opinioni politiche e, forse, anche da un certo risentimento personale (non del tutto ingiustificato, se pensiamo che nel 1949 Orwell lo inserì nella lista dei “simpatizzanti comunisti” stilata di sua iniziativa per il Foreign Office). Tuttavia rimane per certi aspetti ancora valida, anche solo considerando l’imbarazzante seguito che 1984 ha trovato fra i teorici del complotto, forse i più fedeli adepti della “mistica della crudeltà”. Da questo punto di vista trovo che molte perplessità espresse da Deutscher sarebbero utili anche per interpretare l’opera di Stanley Kubrick, che di tale “mistica” rappresenta il pendant anti-americano.
Partiamo dalle analogie più superficiali. In primo luogo entrambi gli artisti, a loro modo, sono dei liberal traditi. Se Orwell ha voluto quasi anatomizzare la sua disillusione, Kubrick invece ha mantenuto sempre un comprensibile riserbo sulle proprie opinioni politiche: c’è chi lo ha definito un social darwinist, chi un anarchico, chi come lo sceneggiatore Frederic Raphael gli ha addirittura attribuito simpatie naziste (“Kubrick once remarked that ‘Hitler was right about almost everything’ and insisted that any trace of Jewishness be expunged from the Eyes Wide Shut script»).
È indubbio che Orizzonti di gloria esprima una filosofia totalmente diversa rispetto ad Arancia Meccanica: se non possiamo dire che l’ingenuo russoviano si sia trasformato nel corso degli anni in uno spietato seguace di Hobbes, possiamo tuttavia riconoscere una maggiore “ragion cinica” nella maturità del regista.
Il secondo punto che accomuna i due autori è il modo in cui le opere si sono ritorte contro i loro intendimenti. È vero che habent sua fata libelli, ma in questi casi la “rivalsa” ha superato le capacità dei lettori: è già stato accennato a come 1984 rischiò di diventare la locandina di una guerra nucleare. Invece una cosa che in pochi sanno è che lo stesso Kubrick pose il veto alla trasmissione televisiva Arancia Meccanica fino alla sua morte, preoccupato che il film potesse istigare quella violenza che avrebbe dovuto condannare.
Infine, un’affinità un po’ più sfumata è quella riguardante la denuncia della violenza del potere, che sia per Orwell che per Kubrick è universale e meta-storico, indipendentemente dalla sua manifestazione in forma di Eurasia (1984) o di Overlook Hotel (Shining). È una suggestione sottile che Deutscher lascia cadere quasi immediatamente, mentre invece il critico Giuseppe Rausa nella sua recensione a Full Metal Jacket porta fino in fondo.
Il punto di partenza sono i cartelloni pubblicitari della prima sequenza vietnamita dell’opera: essi “alludono al colonialismo economico delle multinazionali americane, vero movente di ogni guerra di conquista intrapresa da questo stato/impresa, coacervo di differenti, nonché disomogenee e nemiche etnie”.
Il significato che si cela dietro alle scritte “33”, “Export”, “Photocopie” e “Las Vegas” è, secondo Rausa, che
«la repubblica americana, dominata dagli alti gradi della massoneria (i 33) esporta in fotocopia il suo sistema di vita (un ufficiale razzista, certo della propria superiorità, dirà, poco dopo, che tutti i vietnamiti vogliono diventare dei buoni americani), basato su un’etica edonistico-consumista (l’ossessione del denaro e del possesso di beni materiali; la vita come gioco/Las Vegas) e lo strumento per l’esportazione violenta di tale sistema sono i marines, una confraternita forte, efficiente e spietata come le SS (il numero 33 appare infatti due volte, ossia due possibili significazioni, e appare con dei caratteri che assomigliano a quelli runici, tipici del corpo scelto nazista; del resto le SS possedevano tratti simili al corpo dei marines: dal carattere iniziatico, perfino occultista in quel caso, alla crudeltà, alla spersonalizzazione dei partecipanti)».
Tuttavia il critico, esperto di simbologia kubrickiana, riconosce un significato più profondo della pellicola, che non racconta semplicemente un’aggressione imperialistica, ma una lotta tra due differenti forme di violenza politica (quasi a replicare lo scontro mimetico tra le superpotenze orwelliane):
«Nell’episodio conclusivo [della donna-cecchino] […] nel suo “bunker” si nota una bandiera del Vietnam del Nord: in essa il rosso, il blu e una stella ci raccontano la stretta parentela con quella USA. […] Il comunismo, versione estrema dell’ideale ugualitario delle logge, è in definitiva un parente stretto, seppur radicale, e perciò fortemente illiberale, del repubblicanesimo massonico nel quale invece almeno la libertà individuale è conservata (il vero potere politico risulta però altrettanto irraggiungibile in tali regimi di illusoria democrazia, regimi plutocratici, saldamente controllati da quelle oligarchie finanziarie, industriali e politiche cui allude coraggiosamente Kubrick in Shining e Eyes Wide Shut). Così gli Stati Uniti combattono contro regimi comunisti che costituiscono una sorta di degenerazione dei loro ideali, insomma dei “cattivi cugini”».
A questi osservazione va affiancata l’interpretazione di una delle scene più enigmatiche di Shining:
«L’immagine simbolica del “servile” uomo-orso impegnato in un coito orale con uno dei potenti dell’Overlook [rappresenta] la Russia (la figura dell’orso, noto emblema russo) come segreta colonia degli USA».
Mi permetto di allargare un po’ la prospettiva per chiarire meglio quanto detto finora: così come 1984 non doveva diventare un libello di propaganda anti-sovietica, ma un ammonimento universale contro le inside e i pericoli del potere, allo stesso modo tutto il cinema di Kubrick non doveva rappresentare solo un affresco del “potere totalizzante assunto dal mondo anglosassone e la stretta cerchia che lo gestisce”, ma anch’esso una lettura meta-storica (e forse meta-politica) delle dinamiche di dominio.
Per dirla ancora più esplicitamente: nello stesso modo in cui Nineteen Eighty-Four è diventato per le masse una ricostruzione credibile della vita sotto l’Unione Sovietica, esiste l’eventualità che il cinema di Kubrick, una volta crollato l’establishment che governa gli Stati Uniti (o l’idea stessa di “America” come si è imposta negli ultimi trecento anni), affronti un destino simile. È questo, alla fine, il pericolo della “mistica della crudeltà”: caricare l’arte di troppi significati pur sapendo che essa li mescola e gestisce a suo piacimento (soprattutto il cinema, che è “Musa di se stesso”).
Non vorrei però passare per una prefica dell’imperialismo anglosassone: quello che mi disturba è la facilità con cui l’arte può influenzare la politica (e non viceversa). Possiamo solamente intravvedere il momento in cui appariranno ovunque Livres noirs contro l’americanismo e la storia di un Paese verrà ricostruita in base a un gigantesco post hoc.
L’intera opera di Kubrick diventerebbe la colonna portante di tale operazione, emergendone come un continuum: il Dr. Strangelove assurgerebbe a rappresentazione simbolica dei mille nazisti reclutati dai servizi segreti americani, come documentato dal recentissimo volume (2014) di Eric Lichtblau, I nazisti della porta accanto (una scekta portata avanti sia da Dulles che da Hoover, incuranti del passato criminale di personaggi come Aleksandras Lileikis, protetto dalla CIA fino all’ultimo); l’Hotel Overlook a monumento perpetuo di “un sistema storico-politico che si è costituito sulla profanazione e sulla distruzione globale di un’altra cultura, precedente e più debole”, il quale ritornerebbe al nazismo come manifestazione di questo stesso Potere, in riferimento all’ispirazione che Adolf Hitler trasse dal sistema delle riserve indiane, superba testimonianza delle capacità della macchina di sterminio anglosassone (assieme ai campi di concentramento per boeri del Sud Africa), così come lo aveva conosciuto attraverso le avventure del cowboy Old Shatterhand creato da Karl May; infine questo coacervo di élite sadiche, plotoni di esecuzione, libertini sanguinari e gerarchi nazisti si compendierebbe negli iniziati in maschera di Eyes Wide Shut, i “superiori incogniti” che incitano i Jack Torrance, gli Alex e i Joker allo sterminio dei più deboli.
Chissà che non finiremo per esclamare Dunque era questa l’America!, illudendoci che Kubrick parlasse solamente di essa, e non di qualsiasi Potere, o dell’Impero a venire; e illudendoci anche che la storia non sia a tale | Told by an idiot, full of sound and fury | Signifying nothing.